La Madre nella sequenza d’apertura la vediamo incedere in uno sterminato campo di grano dai riflessi dorati, l’aria un po’ assente, attraversata da una strana inquietudine che le si legge nello sguardo. Una volta giunta al centro perfetto dell’inquadratura, comincia una musica suadente e lei, senza perdere quell’increspatura sottilmente angosciata sul volto, comincia a danzare, un po’ meccanicamente, goffa, eppure lasciandosi però trasportare dalle note, come l’aiutassero a sciogliere un’emozione tragica che la agita. Poi uno stacco ci conduce a un’altra immagine, silenziosa, al calar della notte, occupata per metà dal titolo del film, in cui la donna, sempre nel campo di grano, guarda in macchina con un’espressione grave, quasi minacciosa.
Già da questa introduzione si coglie il talento visivo di Bong Joon-ho, capace di creare con un linguaggio prettamente cinematografico una tensione enigmatica che avvince lo spettatore e lo risucchia tra le pieghe di un racconto di cui non sa ancora praticamente nulla. Il regista sudcoreano, che a settembre rivedremo nella veste di presidente della Giuria alla Mostra del Cinema di Venezia, è ormai celebre in tutto il mondo dopo lo straordinario exploit di Parasite, il film con cui ha messo d’accordo il palato dei cinefili, vincendo la Palma d’Oro a Cannes e quello mainstream globale, con l’epocale trionfo ai premi Oscar di inizio 2020, un attimo prima che la pandemia sembrasse cancellare tutto.
E dal primo luglio, grazie alla distribuzione di PFA Films ed Emme Cinematografia, sarà possibile recuperare al cinema proprio Madre, il suo quarto lungometraggio del 2009, che in Italia era arrivato soltanto in home video. Una visione preziosa, che conferma, ancora ce ne fosse bisogno, la centralità di questo autore nell’immaginario contemporaneo, in grado di muoversi tra cinema sudcoreano e produzioni internazionali (l’ottimo Snowpiercer), grande schermo e piattaforme (Okja, prodotto da Netflix), cinema d’autore e di genere, soprattutto capace di costruire dispositivi narrativi ben radicati nel proprio contesto culturale (infatti alcuni suoi film, su tutti The Host, hanno ottenuto in patria un enorme successo al botteghino) e insieme incardinati su storie e sentimenti con cui possono immedesimarsi gli spettatori a ogni latitudine.
Appunto come l’afflato materno vischioso, coraggioso e totalizzante, della protagonista di questo film, interpretata da Kim Hye-ja, star del cinema sudcoreano abituata solitamente a ruoli di madre più tradizionali. Qui si trova catapultata in una vicenda che ha le venature di un thriller. Lei è la madre – priva di un nome – di Do-lun (Won Bin), ventisettenne affetto da problemi psichici, col quale ha un rapporto di simbiosi quasi incestuoso – il ragazzo dorme ancora con lei. La madre lo osserva amorevolmente e in apprensione dal negozietto di erbe officinali che gestisce – nel quale pratica anche, abusivamente, l’agopuntura –, preoccupata dalle sue cattive compagnie e ovviamente dal suo ritardo mentale che lo rende indifeso. Un giorno viene ritrovata uccisa, un delitto orribile, una ragazza che la sera prima Do-lun, incuriosito e un po’ morboso, aveva seguito fin quasi sulla soglia di casa. La polizia ritrova sul luogo del delitto un oggetto appartenuto a Do-lun, prova schiacciante della sua colpevolezza.
A questo punto la Madre, entra in azione: seguendo prima la via ufficiale, parlando con gli investigatori, affidandosi a un avvocato principe del foro; poi improvvisandosi investigatrice, mossa dalla sagacia e dalla disperazione, ma incrollabilmente certa dell’innocenza del figlio.
Il dispositivo della detection consente a Bong Joon-ho di scoperchiare un mondo: da un lato la ragazza uccisa si rivela essere il crocevia di interessi multiformi e miserie umane diffuse – ragion per cui in tanti premono affinché il caso venga chiuso rapidamente, col capro espiatorio del “ritardato”, come tutti lo chiamano, a coprire il marcio che c’è dietro il delitto. Dall’altro sono le vicissitudini vissute dalla Madre durante la sua indagine a rivelare il vero volto degli uomini e la struttura ferocemente classista della società in cui si muove. Basta vedere la pigrizia sbrigativa degli investigatori – che in qualche modo rimanda a un precedente, notevole film di Bong Joon-ho, Memories Of Murder – e soprattutto il vanesio principe del foro, che tratta la madre con sufficienza e disprezzo, soltanto perché ha capito che quel caso non è remunerativo.
Siamo quindi ancora una volta – pensiamo al treno di Snowpiercer in cui a ogni vagone del treno corrisponde un preciso strato sociale, ed ovviamente anche a Parasite – a una rappresentazione dei conflitti di classe quale architrave del sistema sociale, di cui finiscono per pagare il prezzo i più poveri e più deboli. Ma essendo Bong Joon-ho sia un ottimo regista che un accorto sceneggiatore, Madre non è un’opera che termini semplicemente nella denuncia assertiva di un prevedibile stato di cose.
Perciò il regista imbastisce sequenze calibratissime e memorabili, talvolta persino eccessive nel loro zelo da “pezzo di bravura” – per esempio quella in cui, in un montaggio serrato, il piano dell’indagine improvvisata della madre si sovrappone ai malcerti tentativi del figlio di ricordare cosa ha fatto in quella famosa notte. Lo sceneggiatore, poi, ci conduce attraverso colpi di scena che ribaltano le attese dello spettatore, impedendogli di completare un quadro convenzionale in cui si possano discernere tranquillamente buoni e cattivi, bene e male, obbligandolo a confrontarsi invece con un ritratto assai più sfaccettato della società sudcoreana – di qualunque società.
In cui anche il più puro e saldo dei sentimenti, l’amore d’una madre per il figlio, può partorire il suo esatto opposto. E dove la violenza connaturata a una società profondamente classista, invece di condurre a una giustizia risarcitiva in cui chi è alla sommità della piramide paga per le sue malefatte, finisce per generare una vendetta cieca in cui il povero si sfoga insensatamente su chi è ancora più povero di lui. La stessa triste “morale” di Parasite.