Luca, il film “italiano” della Pixar su Disney+, un inno al coraggio e alla diversità

Dal 18 giugno sulla piattaforma il film d’animazione diretto da Enrico Casarosa. Ambientato nelle Cinque Terre, è un romanzo di formazione su pesci che una volta fuori dall’acqua diventano bambini. E devono imparare a stare al mondo

Luca

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Luca, da oggi su Disney+, è il primo lungometraggio di Enrico Casarosa, animatore da quasi vent’anni alla Pixar, che ha fatto parte dei team creativi di film come Coco, Ratatouille, Up e che s’è anche guadagnato una nomination all’Oscar nel 2012 col corto La Luna, da lui diretto.

Da buon italiano all’estero, coadiuvato dagli sceneggiatori Jesse Andrews e Mike Jones, Enrico Casarosa ha immaginato una vicenda che mescolasse lo spirito fiabesco e pedagogico dell’immaginario Pixar-Disney con un retroterra di memorie adolescenziali personali. Da qui è nato Luca, ambientato nelle Cinque Terre liguri, che diventano uno scenario dolce e avventuroso, coloratissimo come un film anni Cinquanta e pieno di un modernariato d’epoca da eterno Belpaese.

Luca è un pesce, o un “mostro marino”, come direbbero i pescatori che ogni tanto fanno avvistamenti prodigiosi e terrorizzanti in mezzo al mare. In verità è un bambino buonissimo figlio di genitori-pesci sin troppo apprensivi, con una nonna invece disposta ad assecondare il suo desiderio di libertà. Casualmente Luca scopre che gli è possibile anche vivere nel mondo di sopra, oltre la soglia di quell’acqua che nella sua fantasia ha la consistenza d’una pellicola inscalfibile, superata la quale, semplicemente, da pesce con tanto di coda si trasforma in essere umano. Un po’ come un altro famoso essere a metà, un bambino-burattino che in vari modi fa capolino nel film.

L’incontro con un altro ragazzino, Alberto, da tempo “pesce fuor d’acqua”, gli offre la spinta per tentare di sperimentare questa nuova vita, in cui deve letteralmente imparare tutto, dal respirare al camminare – il che rende anche ogni piccola conquista una scoperta entusiasmante. I due trovano anche il coraggio di recarsi in città, a Portorosso: lì incontrano Giulia e il suo padre grosso come Mangiafuoco e in realtà tenero come un pezzo di pane. Con lei s’iscrivono a una gara di triathlon italiano – le specialità sportive sono nuotare, andare in bici e abbuffarsi di pasta (!) – con l’obiettivo di vincere per comprarsi una Vespa (“la più grande invenzione degli umani”, dice Alberto) e anche di porre fine al regno del terrore dell’antipatico supercampione, con tanto di vezzoso maglioncino sulle spalle, Ercole Visconti. Naturalmente Luca e Alberto devono star sempre bene attenti, perché basterebbero due gocce di pioggia a ritrasformarli in “mostri marini”, con le conseguenze che si possono immaginare.

La nascita di quelle amicizie totalizzanti dell’adolescenza, l’istintivo bisogno di scoperta, la necessaria rottura del cordone ombelicale familiare, la sfida (e la paura) del superare i propri limiti (Alberto insegna a Luca a non ascoltare la voce interna, “silenzio Bruno!”, che gli intima eccessiva prudenza), l’accettazione della diversità. Tutti i temi tipici del romanzo di formazione sono inanellati l’uno dietro l’altro in una forma persino elementare, sintetizzati dalla sfida costituita dalla gara sportiva (contro gli altri e sé stessi).

Però la pedagogia spicciola è riscattata dalla confezione elettrizzante, in cui i cromatismi croccanti sono quelli del filtro frapposto da Alberto e Luca nel guardare un mondo che, visto per la prima volta, assume contorni abbaglianti. Partecipa di questo onirismo di fondo il modo in cui viene descritta l’Italia. Ci sono tutti gli stereotipi possibili: un paese eternamente da anni Cinquanta-Sessanta, con le locandine di Vacanze Romane (l’icona della Vespa, appunto) e La Strada affisse sui muri di questo paesino accogliente come un presepe e assolato come un’estate senza fine, con la foto-icona del Marcello Mastroianni di Divorzio All’Italiana (che in inglese si chiamava “Divorce Italian Style”, e tutto il film ricalca quest’immagine di un’Italia tradotta in un italian style a uso di un esperanto globale).

E poi, oltre a un pugno di parole pronunciate in italiano anche in originale – “Santa mozzarella!” – le immancabili canzoni, con una spruzzata di opera lirica, ovviamente suonata da un grammofono, e poi Gianni Morandi, Rita Pavone, Mina (più, fuori epoca, Il Gatto E La Volpe di Edoardo Bennato, che si integra benissimo anche perché rimanda a Pinocchio). Insomma quella narrazione che resta stabilmente al cuore del nostro immaginario, molto più caratterizzante e riconoscibile sul piano internazionale di ciò che è venuto dopo il Boom e la dolce vita.

Naturalmente restano stereotipi, e verrebbe da sorridere, o da irritarsi a scelta, di fronte alla ripetitività con cui si ricorre a certi luoghi comuni. Ma Luca è soprattutto un sogno a occhi aperti, infatti spesso il protagonista si attarda a immaginare universi e situazioni fantastiche. Per cui, pur nell’uso di materiali di riporto, il film è incardinato sull’onirismo, con un’Italia sognata come la può sognare un italiano in vena di malinconie che vuole farla sognare agli americani, cullando tutti con un’avvincente nostalgia.

Lo stereotipo così finisce per nutrire e precisare il messaggio, dichiarato a chiare lettere, col tono sentenzioso e moraleggiante che vuole ammaestrare parlando di sfida della crescita e rispetto della diversità. Lasciando però il retrogusto amaro e realistico della consapevolezza che “alcune persone non ti accetteranno mai, altre sì”. Perché così è la vita.