Con La dolce vita l’Italia e il cinema italiano diventano contemporanei. Basta neorealismi, marescialli Carotenuto, catene e tormenti, poveri ma belli, lo strapaese di don Camillo e Peppone. E basta persino con le tenere figurine tra avanspettacolo, fotoromanzo e circo del primo Fellini. La dolce vita è un corso accelerato di modernità, che travolge il Belpaese sorprendendolo nel bel mezzo della sua trasformazione più incisiva, il boom economico che ne stava riplasmando l’identità.
Che qualcosa stia cambiando lo si capisce sin dalla prima sequenza, il gigantesco Cristo trasportato in elicottero che sorvola i quartieri in costruzione della nuova Roma. Una città che è un cantiere, enorme corpo vivente in espansione, tra l’elusiva metafisica dell’Eur e lo squallore delle case di periferia ai Cessati Spiriti.
“A me Roma piace moltissimo, una specie di giungla, tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene”, dice il protagonista Marcello (Mastroianni), doppio felliniano che idealmente racconta il nuovo capitolo nella vita del Moraldo dei Vitelloni, il giovane di provincia che aveva lasciato Rimini per la capitale (il regista aveva cercato anni prima di girare un “Moraldo in città”, da cui La dolce vita attinge). I suoi sogni di gloria e d’impegno s’infrangono contro il carattere molle e seduttivo dell’urbe, sinuosa sirena decadente (decaduto il cattolicesimo, più abitudine e fondale teatrale che sostanza spirituale, decaduti i nobili sfaccendati sopravvissuti alla propria eclissi di classe dominante, però ancora possidenti e ben pasciuti). Marcello ha un romanzo nel cassetto, ma vive del modernissimo mestiere di giornalista scandalistico, inseguendo insieme a fotoreporter fastidiosi come mosche la vita fatata di star e starlette a via Veneto, tutta scenate di gelosia a uso di rotocalco, orge e lusso.
Non ci mette molto il pigro Marcello a farsi risucchiare passivamente da questo mondo, godendo dei vantaggi degli incontri casuali con bellissime e annoiate nobildonne (la Maddalena di Anouk Aimée) o attrici svedesi in trasferta (la Sylvia di Anita Ekberg, nella leggendaria sequenza della Fontana di Trevi). Ma sempre restando con Emma (Yvonne Furneaux), la compagna materna e asfissiante che detesta e di cui non riesce a fare a meno, con mancanza di carattere tutta italica.
Sebbene restituisca lo spirito del tempo, La dolce vita non ha nulla del realismo di un documento sociale. Invece, nella struttura priva di centro che affastella episodi slegati il cui unico collante è Marcello, il film ha la forza di un’allucinazione. La storia procede per accumulazione scomposta, come la città che cresce in maniera sregolata, un quartiere dopo l’altro. E la vicenda è plasmata dal capriccioso e infantile onirismo di Fellini, che a partire da qui diventerà il suo marchio di fabbrica, motivo ispiratore di racconti sempre più precari e slabbrati.
Per questo le scorribande dei protagonisti – il miracolo dei bambini che hanno visto la Madonna, la seduzione di Sylvia, la festa dei nobili, l’orgia a Fregene – si svolgono soprattutto di notte: quando la lucidità viene meno e con essa la netta distinzione tra sogno e realtà. Così che tutti sono disposti a credere, e cedere, a quel poco o tanto che accade, senza preoccuparsi delle conseguenze e silenziando il cattolico senso di colpa. E quando arriva il giorno – improvviso, come nella sequenza della fontana di Trevi – anche quello ha il sapore di un’allucinazione.
La dolce vita è uno spartiacque anche perché, sebbene fosse un’opera cerebrale, ebbe uno straordinario successo di pubblico. Il quale però, più che dalle ambizioni d’autore, fu richiamato dall’aria da baccanale, dallo scandalo del sesso (lo racconta benissimo Germi in Divorzio all’italiana). Anche quello più immaginato che reale: come ha detto Gianni Amelio, che lo vide ragazzino, “ce ne andammo tutti a letto convinti di aver visto un sacco di donne nude”. Fellini era riuscito a incatenare al proprio onirismo fantastico anche gli spettatori, dando nuova linfa alla forza dell’immaginario cinematografico.
La dolce vita, infine, è anche un catalogo pop, pieno di volti e corpi in cui si specchiano tutte le forme della cultura di massa presente e a venire. Ci sono il giovane Celentano con il suo rock’n’roll con inglese grammelot; il clown Polidor, che testimonia la costante ispirazione circense felliniana; il Tarzan cinematografico Lex Barker; Nico, modella e prossima femme fatale del rock warholiano dei Velvet Underground; Renée Longarini, futura centralinista tv di Portobello; Giulio Questi, ex resistente, regista bizzarro e scrittore raffinato, riscoperto post mortem; Laura Betti, che portava i segni della cultura alta “pasoliniana” sul set fregnacciaro di Fellini. Insomma una vera e propria enciclopedia, che scandaglia l’antropologia dell’Italia e degli italiani, colta nel momento di passaggio dal “come eravamo” al “cosa stavamo diventando”.
https://youtu.be/3o15UTomYsc