Torno sul discorso di ieri, come in fondo la musica mi sia servita, e con me sia servita a una intera generazione, ma forse il discorso andrebbe allargato anche alle generazioni precedenti e alle successive, a uscire dal guscio, a capire chi sono, a sentirmi meno solo e soprattutto a accettare l’idea che non essere allineato a un comune sentire, quello di sistema, non fosse poi così male.
Il quadro è quello lì, ci sono io adolescente in provincia, la provincia che è la periferia della periferia dell’Impero, per intendersi, dimenticata da Dio e dall’uomo. E ci sono gli input che mi arrivano da altrove. Da un altrove che è oltremanica, così si diceva ai tempi, quindi dall’Inghilterra, e da oltreoceano, a volte, raramente, sporadicamente, dall’Italia. Sì, perché sapere che anche dalle nostre parti ci fossero persone non esattamente inclini a riconoscersi nella modalità corrente, senza per questo risultare grottesche, aiutava, e neanche poco.
Sembrava come se di colpo ci fossero dei sottogruppi aperti, nei quali potersi iscrivere. Della serie, non ti hanno preso alla Confraternita figa, quella dei giocatori di football o delle cheerleaders, scusate se mi abbevero a un immaginario piuttosto trito come quello dei campus universitari americani, così abusato dal cinema e dai telefilm, ma non è esattamente questo il cuore di questo capitolo, non voglio sprecare qui energie vitali, non ti hanno quindi preso alla Confraternita figa, una Alpha Lambda o quel che è? Nessun problema, ce ne sono tante altre lì disponibili, hai solo l’imbarazzo della scelta.
Certo è, in questo discorso, che l’arrivo proprio del metal e dell’air-metal, so che i puristi non apprezzerebbero questo mio accostare i due mondi, quello dei Maiden con quello dei Mr Big, per dire, ma a occhio esterno tutta questa grande differenza allora come oggi non c’è, ha in qualche modo sparigliato le carte. Perché se prima le Confraternite disponibili avevano tutte una certa dose di goffaggine e sfigataggine annessa, ammettiamolo candidamente, certo, c’erano i Mods che erano eleganti e avevano le loro lambrette, ma era roba circostanziata che in certa provincia, la mia, manco c’è mai arrivata, da quel momento in poi anche l’essere diversi poteva comportare l’essere fighi.
Non sto parlando di successo, era evidente a tutti, anche a chi fosse poco attento o più semplicemente disinteressato a approfondire, che anche il Jimmy Sommerville dei Broski Beat che le prendeva nel video di Smalltown Boy per aver spiato i ragazzoni che facevano le vasche in piscina, con la sua vocina acuta, i falsetti portati quasi allo stremo, la faccia da bravo ragazzo inglese, quel suo sbandierare ai quattro venti la propria omosessualità in un’epoca in cui la cosa non solo non era ancora stata sdoganata, ma poteva incappare in facili giudizi di scherno, di questo in fondo parlava la canzone in questione, era evidente a tutti che anche il Jimmy Sommerville di Smalltown boy, in apparenza fragile e debole, fosse in realtà una popstar di grande successo, ma è evidente che tanto non bastava, almeno dalle nostre parti, a fare uno scatto di status quo, ricordo sempre con simpatia un pomeriggio in cui, a casa di mia moglie Marina, all’epoca ancora la mia ragazza, abbiamo visto una intervista televisiva proprio a Jimmy che raccontava di come usasse la musica per emanciparsi, e per rivendicare il sacrosanto diritto a vivere con naturalezza la sua sessualità, ancora non si parlava credo di orientamento sessuale, io e lei sul divano, suo nonno Michele in piedi alle nostre spalle, in piedi, un discorso sentito, quasi epico, nonostante la sua voce, in sottofondo, malcelata da quella dell’interprete, non fosse esattamente epica, discorso cui ha messo la chiosa proprio il nonno di Marina, senza alcuna malizia o cattiveria, ma semplicemente con quella mentalità che l’essere nato in un paese italiano nel 1920 portava con sé in dote, “n’ atro frocio”. I protagonisti di questa ventata di air-metal e di hard rock, quindi, col loro look fintamente selvaggio, le borchie e la pelle smussate dai capelli cotonati e dalle pantacollant aderenti, a evidenziare sì il pacco, ma pur sempre pantacollant, le chitarre elettriche brandite non solo esteticamente, ma anche musicalmente, come enormi falli, i video pieni di donnine discinte, no, non accusatemi di patriarcato e sessismo, sto raccontando eventi passati provando a simulare quel che si pensava ai tempi, tutto questo ha portato all’idea di essere diversi dal mainstream, apocalittici invece che integrati, una buona dose di coolness e glamour, orecchini e smalti, per dire, come gli stessi capelli lunghi e la matita sugli occhi, passati serenamente a essere identificati come pratiche virili, i ritmi selvaggi delle canzoni non lasciavano dubbi a riguardo, come non ne lasciavano l’assunzione a ruolo di sex symbol di buona parte dei protagonisti chiamati in causa, da Jon Bon Jovi a Sebastian Bach, passando per tutti gli altri.
Di colpo essere alternativi era riconosciuto come accettabile anche per chi alternativo non era e continuava a guardare a quel mondo con ostilità o quantomeno con scetticismo.
Tutto questo, è storia, avrebbe poi avuto un ulteriore scatto in avanti col grunge, che a quel mondo ha attinto a piene mani, non fidatevi di chi dice il contrario, anche se lì entrano in gioco anche l’hardcore melodico di band quali gli Hüsker Dü, come l’hard rock serio e radicale di band quali i Deep Purple o i Black Sabbath, di colpo anche chi si riteneva intellettualmente più evoluto, diciamo che i metallari non hanno mai goduto di grande stima del mondo degli intellettuali né di quello universitario, ha trovato modo di apprezzare questi suoni così grezzi e violenti, e il metal, anche quello più radiofonico ha in qualche modo trovato un riconoscimento quasi globale.
Nei fatti, parlo per me, ripeto, ma non solo per me, l’avvicinamento a certa musica dura è passata da lì, dall’air-metal, e volendo anche dal nostro vagheggiare di poter essere in qualche modo fighi come quei personaggi lì, diversi dagli altri, quindi, gli “inquadrati”, ma al tempo stesso non proprio mostruosi, irriconoscibili, inidentificabili o grotteschi.
Nei fatti, però, eravamo e restavamo marginali. Nel senso, non eravamo il quarteback della squadra di football locale, continuo a pascolare in quel prato, e le cheerleaders neanche sapevano della nostra esistenza.
In questo, credo, avremmo tutti dovuto guardare con più interesse altrove, e di lì a poco sarebbe anche successo, perché esattamente mentre viene dato alle stampe una sorta di monumento ai suoi duri e macho come Appetite for Distruction dei Guns N’ Roses, la bandana di Axl Rose, il cilindro di Slash elevati a emblema di un suono e di un atteggiamento, a Athens, Georgia, decisamente meno cool della Los Angeles gunsnrosiana, una college band che si è già messa più che in evidenza nei circuiti alternativi, i R.E.M., danno alle stampe Document, loro deciso passo verso un successo di massa grazie al traino dirompente di un brano come It’s The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine) e soprattutto la megahit The One I Love. Come dire, si poteva serenamente ambire a essere fighi, sempre che Michael Stipe, Peter Buck, Mike Mills e Bill Berry a questo ambissero, pur rientrando alla perfezione nei canoni della normalità, ma soprattutto della normalità anche un po’ sfigata. Non che i R.E.M. fossero il primo emblema di questo modo di essere e di proporsi, intendiamoci, ma sempre in quei giorni, son cose che succedono, gli U2, che con la band di Stipe dividerà in qualche modo il ruolo di band feticcio della mia generazione, ben prima dei miei coetanei grungers, stava iniziando a assumere pose decisamente più vicine a quelle di un Jon Bon Jovi, il passaggio da The Joshua Tree a Ruttle and Hum sarebbe stato indolore, i giubbotti di pelle indossati a torso nudo e i cappelli da cowboy erano già tutti lì, video canta, di lì a breve, per altro, anche altri protagonisti del post-punk come i The Cult avrebbero lasciato quelle istanze oscure per abbracciare l’hard rock, loro anche musicalmente, dando alle stampe Sonic Temple, vero e proprio manifesto, quindi è ai R.E.M. che toccherebbe guardare da un punto di vista filologico, esattamente come rappresentanti di una sorta di rivincita dei nerd, questo ben prima che qualcuno decidesse che essere sfigati era figo, vedi alla voce hipsters.
So che tutto questo può sembrare una lettura bislacca del costume, più che della musica, e forse in parte lo è, ma la musica leggera, specie il rock, sin dai tempi di Elvis, è stato anche fenomeno di costume, non a caso fenomenologia e musicologia sono sempre andati a braccetto, nei cultural studies.
Questo mio guardare al passato, comunque, ha ovviamente una attinenza con l’oggi, non è che io stia qui a vivere di ricordi, anche se potrebbe sembrare il contrario.
Perché, poi giuro che arrivo al punto, neanche un mese dopo che Kurt Cobain ha deciso di porre fine ai suoi tormenti infilandosi un fucile in bocca e premendo il grilletto, ripeto, il grunge è stato vissuto una sorta di giustificazione intellettuale al mondo dell’hard rock, andatevi a leggere le pagine dedicate proprio a quel giorno da parte di Douglas Coupland, non a caso il cantore della Generazione X, pagine contenute nel libro Memoria Polaroid, perfette per cogliere quel che sto dicendo, è arrivato sul mercato un album destinato a entrare nella storia della musica alternativa e di farci entrare in pianta stabile la band che di quell’album è titolare, parlo del The Blue Album dei Weezer, uscito il 10 maggio del 1994. Gli Weezer, band capitanata dal vulcanico cantante Rivers Cuomo e che ha in Brian Bell il suo contraltare chitarristico, Scott Shriner e Patrick Wilson alla sezione ritmica (anche se ai tempi dell’esordio al basso non c’era Shriner ma Mikey Welsh), sono la fotografia plastica di cosa significhi diventare band di grande successo, il brano Happy Days, con video che richiamava proprio la omonima serie televisiva con Ricky Cunningham e Fonzie, porterà la band a passaggi continui su MTV, pur rimanendo fondamentalmente degli antidivi. Gli occhiali con le montature spesse, i vestiti “normali”, la faccia da gente ordinaria, tutto lascerebbe pensare che i membri della band siano dei nerd che hanno trovato nella musica un modo per comunicare con un mondo che altrimenti li avrebbe tenuti ai margini, l’essere divenuti una delle massime rappresentazioni del college-rock, del resto, guarda esattamente in questa direzione.
Bene. Veniamo a oggi. Nel 2021, gli Weezer hanno pubblicato due album. Era già successo nel 2019, a dirla tutta. In quel caso erano usciti The Black Album e The Teal Album. Nel corso della loro carriera hanno pubblicato tutta una serie di album “a colori”, dall’iniziale Blue al Green, passando per il Red e per il White, nel 2019 ci sarà quindi un album di inediti, The Black e uno di cover anni Ottanta, anche piuttosto fedeli agli originali, The Teal. Nel 2021, invece, sono usciti Ok Human e subito dopo Van Weezer. Il primo è un album di inediti, parentesi acustica dentro la loro ultraventicinquennale carriera, di maniera a tratti, ma sempre con una buona dose di personalità e originalità, ma Van Weezer è davvero il corto circuito di quanto ho scritto fin qui.
Rivers Cuomo e soci, infatti, hanno deciso di rendere il loro sentito omaggio a quel mondo metal, hard rock, air metal e via discorrendo, di cui ho parlato fin qui. Il titolo è un omaggio ai Van Halen, ancora più sentito per il fatto che Eddie Van Hale, uno dei massimi rappresentanti della categoria Guitar Hero, è morto recentemente. Così, per dieci brani, gli Weezer indossano i panni da metallaro e ci regalano una cavalcata, termine quantomai azzeccato, nel mondo dei Van Halen, dei Metallica, gli Slayer, gli Iron Maiden, gli WASP, i Queen, addirittura, passando per una gita fuori porta dalla parte dei Ramones, cui è evidentemente dedicata Sheila Can Do It. Chitarre velocissime e tirate, perennemente distorte, ritmi indiavolati, sonorità pesanti, nella migliore tradizione del genere, seppur col cantato di Cuomo che è sempre “alla Cuomo”, quindi assai poco hard rock. Un omaggio che è un vero omaggio, ma che in qualche modo dimostra come anche l’anima più colta possa indiavolarsi ondeggiando magari non una folta criniera, assente di lusso, ma i capelli da nerd che da sempre gli Weezer sfoggiano. Un omaggio che è anche un rivendicare una appartenenza, quindi, un dire a gran voce “potrebbe non essere chiaro, ma anche noi andavamo al drive in con il six pack di birre a pomiciare con le ragazze”.
Per chi come me è sempre stato curioso di tutto e tutti, sempre outsider anche all’interno di quei gruppi che come outsider venivano inquadrati, Van Weezer è una sorta di manifesto arrivato ahimé con una trentina buona di anni di ritardo. Meglio tardi che mai, si dice in questi casi.