Torno a parlare di arte.
Lo faccio sempre. Ma oggi parlo di arti figurative, di pittura, prendendo le mosse dalla musica, ma svelando solo in conclusione come e perché. Una sorta di panoramica su opere che in qualche modo rappresentino donne e donne fuori tendenza, fuori moda, così vive, però, da generare a loro volta nuovi percorsi, modalità, tipologie.
Non credo sia un mistero che quel che faccio e scrivo trae forte ispirazione dalla cultura di inizio Novecento. Certo, nei fatti è la letteratura della seconda metà del Secolo a essere finita dentro il mio stile, il massimalismo, il postmoderno, l’avant pop e il cyberpunk, ma dadaismo e surrealismo sono le basi, l’arte della provocazione, il situazionismo che proprio con Guy Debord originerà la psicogeografia, o quantomeno la codificherà, sono un uomo del secolo scorso, non solo per nascita, ma anche concettualmente, è un fatto.
Che quindi io abbia da sempre apprezzato l’arte di un personaggio come Man Ray è logica conseguenza, quasi una cosa scontata, tipo chiedere a un bambino se gli piace la pizza o la Nutella.
Le violon d’ingress è una delle opere più note dell’artista americano, capace come nessun altro di trasporre nelle fotografie la potenza d’impatto delle arti visive in movimento, ricordiamo che Man Ray era anche regista. Si vede una donna, di spalle, un grande turbante in testa, un telo a cingere a fatica i fianchi, la schiena nuda, giù fino al sedere. Guarda di lato, come a creare un movimento che in realtà la fotografia di suo non permetterebbe, una dinamica per nulla stemperata dal bianco e nero, che anzi riesce a sottolineare una sensualità che statica, di per sé, non potrebbe mai essere. La donna, la foto è ovviamente in bianco e nero, ha due chiavi di violino dipinte sui lombi, un intervento fatto ex post, a mo di quanto adesso non siamo abituati a vedere grazie ai programmi di grafica, da Photoshop in su, e vuole in qualche modo cristallizzare una comunione non solo spirituale tra femminilità e musica, certificando quello che la linguistica ci aveva già detto in maniera chiara, il corpo sinuoso, lo schianto dei fianchi, a fare il resto.
Frida Kahlo è Frida Kahlo. Talmente tanto da correre il rischio, come tutto ciò che diventa di moda, di venire a noia. O meglio, siccome è impossibile farsi venire a noia la bellezza, dubitate da chi sostiene il contrario, corre il rischio di perdere parte del suo impatto emotivo. Personalmente mi sono fatto una mangiata di Frida Kahlo nel 2003, quando ho passato un mese della mia vita in solitudine nella terra del Borneo, reporter scrittore sulle orme di Sandokan. Un viaggio nato da un racconto contenuto nell’antologia Mompracem, titolo quantomai sintomatico, che mi procurò un invito a andare a scoprire i luoghi salgariani, andando in sostanza a fare quello che tecnicamente era esattamente un viaggio psicogeografico, usare come mappa dei romanzi scritti da un autore che non si era mai mosso dall’Italia per scoprire un luogo che si trova a ventiquattro ore da aereo da qui. Secondo italiano a toccare con mano la sabbia di Mompracem, nel fatti un isolotto di nome Kuraman di fronte all’orribile porto commerciale di Labuan. Dovendo passare un intero mese da solo, giusto la compagnia di una guida che sapeva parlare, come me del resto, un inglese di servizio, ho deciso che a farmi compagnia sarebbe stata una artista che aveva fatto della solitudine, non solo personale, ma anche interiore, il dolore costante non è esattamente quel che si può identificare come una compagnia, seppur parte fondante della sua poetica e visione del mondo. Frida Kahlo. Così mi sono procurato cinque o sei biografie, alcune tradotte in italiano altre in lingua originale, parlo malissimo inglese, ma lo so leggere piuttosto bene, e le sue vicende e le sue parole sono state la mia compagnia mentre mi trovavo nel posto al mondo più esotico e distante da casa in cui io sia mai stato. L’autoritratto con collana di spine è un dipinto particolare, perché se è vero che, come quasi sempre capita, al centro della scena c’è lei, Frida, i suoi tratti forti, quelli che a distanza di decenni dalla sua morte l’hanno resa una icona pop, al pari del Che Guevara che campeggia in tante t-shirt, è anche vero che quel che intorno a Frida si anima a colpire l’occhio. Vediamo gigantesche foglie, a fare da pendant con la collana di spine che titola l’opera, metaforica ma anche fisica, due farfalle a ornare i capelli, una scimmietta e un gatto nero, forse una piccola pantera a fare da bue e asinello per questo anomalo Natale, una foglia gialla, quasi una aureola, a incoronare la testa. Il contrasto coi capelli neri e una foulard viola a sottolinearne la presenza.
La pop art è stato un movimento artistico di grande impatto nella seconda metà del Novecento. Come è successo con tante altre arti, in questo la musica e il cinema, forse, sono le forme che più hanno sfruttato e subito l’industrializzazione, le arti visive impattano, che brutta parola, con la replicabilità consentita dalle nuove tecnologie, passando velocemente dal campo della mera arte a quella dell’iconografia. Andy Warhol, in questo, è stato non solo artista, ma anche filosofo e ideologo capace di intuire prima degli altri, o quantomeno in maniera decisamente più mediatica come il consumismo e il marketing avrebbero giocato un ruolo centrale negli anni a venire, andando a produrre una serie di opere “in serie”, mi si passi il brutto gioco di parole, di cui le nove serigrafie dedicate a Marilyn Monroe, probabilmente l’icona più potente di questa frazione di secolo, è una delle prove plastiche più esplicite di questo passaggio, la morte tragica e improvvisa dell’attrice a sancirne l’immediato salto al ruolo di icona di massa. Andy Warhol viene tristemente ricordato più per l’aforisma relativo ai quindici minuti di celebrità cui tutti avremmo potuto ambire nel futuro, che poi sarebbe il nostro presente, se non addirittura il nostro passato prossimo, ma l’aver portato l’immaginario da ADV nell’arte e averlo anzi usato per farlo esplodere mi sembra assai più significativo.
Parlare di Novecento, specie di prima metà del Novecento, e non citare Parigi sarebbe un po’ come parlare di calcio e scordarsi di parlare del Brasile o dell’Inghilterra. Confesso di non aver mai apprezzato più di tanto l’opera di Tamara de Limpicka, pittrice polacca che a Parigi visse e della quale divenne in qualche modo emblema, parlo del periodo intercorso tra le due guerra, in particolar modo del decennio tra il 1920 e il 1930, finché non l’ho incontrata nei versi di una poetessa della mia città natale, Ancona, come me in esilio al nord, Cristina Babino. La sua biografia in versi, La donna d’oro, edita da PeQuod nel 2008, ce la regala in tutta la sua femminile potenza, tanto potente da superare le opere stesse, facendo di se stessa una icona altrettanto vivida, delineate e elegante come le donne ritratte, in qualche modo destinata a rimanere nella storia come emblema di un bel vivere, colto e avventuroso, libero e in qualche modo dedito al bello. En plein èté è una delle sue opere più famose, il contrasto tra il rosso dei fiori e del rossetto e il bianco degli abiti e del cappello, la pelle diafana a fare da contrasto con le figure geometriche nello sfondo, a creare una immagine al tempo stesso elegante, sensuale e modernissimo, ancora oggi, a distanza di quasi novant’anni. Lo stile della De Limpicka, così plastico, quasi da rivista di moda, è al pari di quello di Gustav Klimt quello che più di ogni altro cristallizza il femminile nell’arte del primo Novecento, regalandoci, è il caso di dirlo, seppur con notevoli differenze stilistiche e estetiche, una donna finalmente liberata e in grado di guidare le danze, emancipata, erotizzata, protagonista.
Giuditta di Klimt, opera del 1901, rende perfettamente l’idea di una donna che, forte e divertita, è consapevole della propria forza, di come il proprio fascino sia letale, la testa del malcapitato Olofrne si intravede nell’angolo a destra, dettagli apparentemente irrilevante. Una sensualità così potente da essere quasi sfacciata, gli abiti, nel solito stile “dorato” e bidimensionale dell’artista austriaco, a rendere ancora più vivida la presenza della protagonista, il cui volto era Adele Bloch-Bauer, esponente di spicco dell’alta società viennese. Quel che di questa opera colpisce, a fronte di uno stile, esattamente come nel caso di Frida e della De Limpicka così personale da essere immediatamente riconoscibile anche a occhio poco esperto, è lo sguardo, sfrontato ma sornione al tempo stesso, quasi di sfida, del resto Giuditta ha la testa di Oloferne in mano, non credo avesse poi questi grandi timori reverenziali, e il suo esibire il proprio corpo senza indugi e pudori, la cornice d’oro a evidenziare quel che di suo già è sufficientemente evidente, al punto da non essere neanche troppo centrale, il dipinto si poggia su un’immagine slanciata, verticale.
La ragazza con gli orecchini di perla di Jan Vermeer confesso che mi fa invece uno strano effetto. Perché passata per il romanzo di Tracy Chevalier e poi per il film di Peter Webber, il dipinto del pittore olandese ha finito per vivere una seconda vita forse più iconica del dipinto stesso, al punto che il viso di Scarlett Johansson, protagonista con Colin Firth della pellicola ha in qualche modo sostituito quella dell’originale Griet, la modella dell’opera stando alla trama del romanzo e quindi del film, nell’immaginario collettivo. Malasorte per un’opera che nella storia dell’arte viene in qualche modo considerata una specie di Gioconda olandese, per l’enigmaticità dello sguardo della ragazza nel dipinto, quel gesto di voltarsi così naturale, ma al tempo stesso così ipnotico, il contrasto tra gli abiti dipinti sommariamente e l’orecchino, decisamente prezioso, un nero radicale sullo sfondo, un dipinto che ha dato vita a molte ipotesi, tutte piuttosto fantasiose, la più attendibile è che si tratti di un finto ritratto, quindi solo opera di fantasia senza una reale modella, bye bye Griet, opera datata 1665-1666, tanto per collocarla nel tempo.
L’idea di usare l’arte per raccontare la musica mi è sempre piaciuta, molto. Sarà che pittura e musica sono due forme d’arte immediate, fruibili in maniera anche distratta e a un pubblico che non sia necessariamente alfabetizzato riguardo quelle forme artistiche e che magari appartenga anche a culture lontanissime a quelle degli autori.
Quando negli anni scorsi mi sono trovato a pubblicare due libri che si occupassero di musica e femminile, per dire, ho coinvolto delle cantanti, che si sono prestate come modelle, andando a chiedere loro di ricreare opere d’arte classiche capaci di trasmettere sin dal primo sguardo concetti eterni. Così il libro Venere senza pelliccia, edito nel 2017 da Skirà, ha potuto avvalersi di Romina Falconi, interprete di una versione pop e barbiezzata della Venere di Milo, per l’occasione ricreata da Ilario Botti, mentre il libro I piedi nudi di Amanda Palmer, i capelli rossi di Elizabeth Siddal, edito nel 2019 da Vydia, con la direzione editoriale di quella Cristina Babino su citata quando parlavo di Tamara De Limpicka, ha avuto in copertina una versione moderna della Venus Verticordia di Gabriel Dante Rossetti, interpretata dalla cantautrice Alessandra Salerno, insieme a Benedetto Galiffi autrice dello scatto fotografico e della tecnica pittorica alla base dell’opera.
Prossimamente sarà il Lady Godiva di John Collier, anno del Signore 1898, preraffaellita di seconda generazione, a campeggiare su uno dei miei libri in uscita, sempre reinterpretato da cantautrici, il preraffaelitismo, ne ho scritto a più riprese, il genere pittorico che più mi emoziona e appassiona, da sempre, anche alla base della mia adesione assoluta alla psicogeografia.
Per questo, se dovessi indicare un’opera e un’opera soltanto indicata a rappresentare quello che per me è l’arte alla sua massima espressione, e che racchiuda in sé tutte le istanze della mia visione del mondo, non potrei che scegliere una delle massime opere proprio del preraffaelitismo, l’Ophelia dei John Everett Millais, la cui musa è stata Elizabeth Siddal. La conoscete tutti, spero, il corpo esanime nelle acque gelide del fiume, l’abito chiaro, le braccia aperte e i palmi delle mani rivolti al cielo, il volto diafano incorniciato dai capelli rossi sparsi sulle acque cupe, la natura rigogliosa e selvaggia tutto intorno. Una immagine solo in apparenza di morte e sconfitta, nei fatti anomalo gesto di riscatto e liberazione, la musa Siddal, tradita e offesa, che si immola entrando nella storia, icona antelitteram di resilienza prima che la parola resilienza diventasse troppo di tendenza, finendo per svilirsi.
Ecco, da oggi saprei anche chi chiamare a interpretare Ophelia, senza indugi.
Perché è successo che il 29 aprile è uscito un singolo di una artista che ha scelto di usare l’arte visiva per accompagnare una canzone che proprio dell’essere fuori tendenza è una sorta di manifesto artistico, parlo di Fuori tendenza di Gaia Gentile, ventinovenne cantautrice pugliese. Avevo già avuto modo di apprezzare la canzone e le capacità compositive e interpretative della nostra durante le serate di selezione di Musicutlura, serata nella quale Gaia aveva incontrato il favore del pubblico da casa, che le aveva assegnato il premio come migliore artista in gara, ma che ovviamente non ha incontrato poi il plauso della giuria, Musicultura si è sempre distinta per una forma di idiosincrasia verso il cogliere al volo i talenti che passano da quelle parti, ma devo dire che il video che accompagna il lancio della canzone è una vera delizia, degna di una popstar internazionale. Il che, per altro, è in perfetta linea con la canzone, un brano che si rifà all’R’n’B, ma a quello vero, nulla a che vedere con l’urban, ritmi sincopati, fiati a tenere il tempo, un flow, fatemi usare impropriamente un termine invece tipico della musica black contemporanea, che sciorina parole taglienti e ironiche da interprete navigata e esperta. Un manifesto al non essere alla moda, che tira in ballo artisti tristemente noti della nostra contemporaneità malandata, che nel video (lo trovate qui) vengono accompagnate da immagini di Gaia che veste, letteralmente, i panni dei dipinti su citati, in ordine di apparizione il Violin d’ingres di Man Ray, Frida Kahlo e un suo non meglio specificato ritratto, l’Autoritratto con collana di spine da lei evocato suo social è in realtà più un canone che un vero riferimento specifico, Giuditta di Gustav Klimt, Marilyn Monroe di Andy Warhol, En plein èté di Tamara De Lempicka, e La ragazza dall’orecchino di perla di Jan Vermeer.
Un brano davvero perfetto, giocato su se stessa, Gaia si cita a più riprese, per altro andando a dimostrare una personalità forte e matura, non distante da quelle delle donne che va a interpretare, un nome che ci dobbiamo decisamente appuntare e tenere d’occhio, perché la ragazza c’è e non potrà che darci soddisfazioni. Mostrarsi al mondo palesando personalità è decisamente andare fuori tendenza, specie se a accompagnare questa epifania è una musica che non risponde ai canoni della contemporaneità, si sa che ciò che immediato non sempre è destinato a restare, su questo credo di poter scommettere qualche bella cifra sul fatto che la trap non resterà altrettanto a lungo dell’R’n’B intonato dalla Gentile, artista che mi sento di includere in una sorta di Justice League di artiste intenzionate a promuovere il bello in musica, gruppo che annovera anche una Serena Brancale, una Carolina Bubbico, una Chiara Civello.
Certo, nella carrellata di donne forti, fuori tendenza, manca proprio l’Ophelia di Millais, o la Beata Beatrix di Gabriel Dante Rossetti, in entrambi i casi la Siddal a fare da modella, lei che viene spesso indicata come la prima top model della storia, ma magari ci sarà modo di lavorarci su in seguito, sì, questa è una proposta, Gaia, bentrovata.