Ho passato circa nove anni della mia vita professionale lontano dalla critica musicale e dal giornalismo. A grandi linee, si intende. Nel senso che dopo aver passato qualche anno lavorando in redazione, a Tutto Musica, e aver intrattenuto collaborazioni fisse con alcuni magazine, a un certo punto ho deciso di smettere, lasciando che questa parte del mio lavoro divenisse flebile, una minima parte, quasi opzionale.
Il fatto è che, chiusa la parentesi di Tutto Musica, la mia collaborazione con Rolling Stone, all’epoca scrivevo con la rivista cartacea, ancora parte della Quadratum Editore, era a un punto morto. In sostanza mi chiedevano recensioni di dischi che poi non mi pubblicavano non perché fossero mal scritte, dai, non scherziamo, ma perché le mie recensioni avrebbero infastidito discografici o artisti, fatto che evidentemente non rientrava nelle intenzioni degli allora direttori, Carlo Antonelli e Michele Lupi. Per cui decisi che avrei smesso questo mestiere, continuando a scrivere libri o articoli che si occupassero d’altro.
Poi nel 2014 incontro Peter Gomez, il quale mi tira dentro le pagine online del Fatto Quotidiano. Dovevano creare un magazine, per ampliare il loro campo d’azione in vista di una futura quotazione in borsa, e un uomo d’esperienza era loro utile. Ho iniziato, come molti, tenendo un blog, e di lì a qualche mese ero diventato una delle firme più riconoscibili non solo del giornale, ma del settore critica e giornalismo musicale in Italia, di lì a neanche due anni avrei portato a casa il Premio Mr Blogger, a Sanremo, istituito da Mario Maffucci, il famoso capostruttura Rai, e deciso da una giuria che vedeva raccolta una porzione importante dei miei colleghi. Al FattoQuotidiano.it, va detto, ho sempre avuto grande libertà d’azione, temo però per i motivi sbagliati. Non c’era nessun tipo di contatto con la discografia e il sistema musica, quindi il mio dire quel che pensavo e non farmi scrupoli non incappava in nessun tipo di pressione subita o altro, e per di più portavo anche un numero considerevole di lettori, al punto che quella che doveva essere una collaborazione tra le tante divenne centrale nel mio lavoro. Nacque il Magazine, e i numeri aumetarono, la mia penna affilata in perfetta linea col resto del giornale, il M5S non era ancora salito al potere. Quindi attaccare il sistema musica era consentito, come del resto i giornalisti che si occupavano di politica facevano con chi era al governo, coi poteri forti.
Tutto bello, in apparenza. Perché poi succede che cominciano a arrivare le prime pressioni.
Non sono particolarmente portato per tenere rapporti con chi mi sta sopra, non a caso ho deciso di fare un lavoro da free lance, e di diventare il capo di me stesso. Col che voglio dire che parte della colpa potrebbe anche essere mio, ma di fronte alla richiesta di non scrivere di qualcuno, perché amico del direttore o del giornale, io mi sono irrigidito. Così succede che, il 26 aprile 2016, inizio a collaborare con un altro giornale, Linkiesta, senza per questo chiudere col FattoQuotidiano.it. Non avevo un contratto di esclusiva, anche se in genere si tende a tenere una collaborazione importante sola, per non infastidire capiredattori e direttori. Il fatto è che avevo presentato un articolo al Fatto, che però me lo aveva cassato. Era un articolo innocente, niente di che, ma non si poteva criticare un artista che fosse anche testimonial del giornale, in qualche modo, quindi niente da fare. La cosa mi ha infastidito, così l’ho proposto a Linkiesta che me lo ha pubblicato, dando vita a una collaborazione che negli anni mi avrebbe procurato, ci avrebbe procurato, delle belle soddisfazioni. Il mio primo pezzo per Linkiesta, quello censurato dal FattoQuotidiano.it era un pezzo molto leggero e ironico su Fedez, che proprio nei giorni precedenti aveva dato un suo contributo ai Baci Perugina, vergando di proprio pugno alcune delle frasi per i bigliettini contenuti nei cioccolatini degli innamorati.
La cosa non viene presa benissimo dalla responsabile del magazine, colei che mi aveva cassato il pezzo su Fedez. Ci sono alcune tensioni che però, anche a causa dei numeri che i miei pezzi continuano a portare, passano.
Arriva giugno 2016, a memoria il 7. Il giornale decide di invitare come “direttori per un giorno” due cantanti. La cosa del direttore per un giorno è cosa vecchia, ma sempre molto funzionante, specie da che esiste la rete. Si invita un personaggio noto, del mondo dello spettacolo o dello sport, e gli si affida per un giorno il giornale, lasciando che sia lui a fare il direttore. Chiaramente la cosa è spesso di facciata, perché uno di passaggio non può sapere come si faccia il direttore di un giornale, diciamo che più che altro porterà sue idee, sue tematiche, e in qualche modo porterà anche i suoi fan a seguire per qualche ora il giornale. Essendo il FattoQuotidiano.it un quotidiano, certo, ma online, la direzione si sviluppa anche in una lunga diretta social, durante la quale i collaboratori e i redattori propongono le loro idee al direttore, discutendone a beneficio di webcam.
Essendo io la prima firma per quel che riguarda la musica, anzi, la sola firma, e essendo i due direttori per un giorno cantanti, la cosa più naturale è che io sia presente in sede, per dare il mio contributo. Io non sto in redazione, sono un collaboratore fisso, ma non in redazione, ma ogni tanto passo e questa è una di quelle volte.
Solo che mi viene detto esplicitamente che no, non è il caso che io sia della partita. Anzi, mi viene proprio detto, dalla responsabile del magazine, di non andare.
Per essere certi che la cosa non presenti spiacevoli sorprese, vengo invitato a partecipare alla presentazione di un album che si terrà in concomitanza con quella diretta social, quella di Folfiri e Folfox degli Afterhours, allo spazio Santeria di Milano. Vado, perplesso.
Mentre sono lì, alla presentazione, mi arriva una telefonata da Peter Gomez, cui ovviamente non rispondo, poi me ne arriva un’altra. Alla fine, preoccupato, esco. Non siamo soliti sentirci così spesso. Esco e lo chiamo, e lui mi chiede se sto seguendo o ho seguito la diretta social del giornale. Rispondo ovviamente di no. Mi invita a farlo, subito, perché si è parlato di me e lui vuole sapere cosa ne penso. Lo sento preoccupato. Mi preoccupo anche io e, in strada, lì in viale Toscana, davanti al Santeria, procedo nella visione. I direttori per un giorno, mi ero dimenticato di dirlo, sono Fedez e J Ax, che stanno iniziando a collaborare, poi daranno vita a un album comune, Comunisti col Rolex, e un fortunato tour, con tanto di data a San Siro. Guardo il video e in pratica succede che i due rapper, proprio a inizio della diretta, mi insultino. Ironicamente, certo, ma mi insultano. Dicono anche che, essendo direttori loro, mi licenziano, il che farebbe ridere, perché io non sono assunto, ma non fa ridere perché io sono stato tenuto lontano da quella diretta, che in sostanza diventa una sorta di bullismo nei miei confronti. Gomez, ovviamente, è preoccupato, perché seppur io non sia assunto, sono pur sempre un collaboratore, e nessuno, lì, ha preso le mie difese. A me, in tutta onestà, nonostante la seconda censura incassata in pochi mesi, frega poco di quel che dice Fedez col suo socio. Chiamo Gomez e dico che la cosa non mi ha fatto ridere, ma che non mi interessa. Per me è morta lì.
Esce il disco dei due e io ne scrivo, in termini non esattamente entusiasmanti, ma altrove, su Linkiesta. Scrivo di Fedez come giudice di X Factor, per il resto cominciano a essere un po’ troppi gli artisti di cui non mi posso occupare. Arriviamo a una crisi nel momento in cui, quando scoppia il casino del secondary ticketing e di Live Nation, vengo tenuto a debita distanza dalla conferenza stampa indetta da Salzano e che vede presenti tutti i principali promoter, De Luca di Live Nation escluso, ovviamente. Da tempo mi sto occupando, spesso su Linkiesta, del sistema, e mi stupisce questo mio tenermi in sede, seppur per fare una interessante intervista con Cesare Cremonini. Quando però vado a chiedere di poter raccontare non tanto del secondary ticketing quanto piuttosto di come altri promoter si muovano dopando i numeri, quindi spacciando per sold out concerti e tour che sold out non sono, al fine poi di alzare l’asticella al tour successivo e di vendere le date per concerti alla tv, e quando mi trovo nuovamente la porta chiusa in faccia qualcosa di rompe, per sempre. In maniera curiosa, perché il tutto avviene mentre sto lavorando a due libri, di prossima uscita per l’editore del Fatto Quotidiano, PaperFirst, con Vasco Rossi. In pratica succede che il mio articolo, dal titolo piuttosto esplicativo Completamente Sold Out Stocazzo esce per Linkiesta nel maggio del 2017, pochi giorni prima che esca il libro Da rocker a rockstar, a doppia firma di Vasco e mia per PaperFirts, e io smetto di scrivere per il Fatto Quotidiano. Per sempre. Decidiamo di tenere la cosa nascosta, perché sarebbe davvero bizzarro spiegarne i motivi, ma la scelta sembra irrevocabile. Nel senso che ne parlo a più riprese con Gomez, il quale afferma di volermi nel giornale, ma sempre facendomi passare sotto la responsabile del magazine, la quale ha preferito difendere a oltranza Tommaso Paradiso e soci, per ragioni per altro non esattamente professionali, che tenersi un collaboratore che negli anni ha portato qualche milione di lettori coi suoi articoli. Amen.
Incasso la fine di questo rapporto e vado avanti.
Poco dopo l’uscita del secondo libro, in ottobre, quando finalmente posso annunciare l’evidente, non scrivo più per il FattoQuotidiano.it, senza che io specifichi perché, mi arriva un messaggio di Selvaggia Lucarelli, la quale mi informa che sta per iniziare a dirigere il sito di RollingStone.it e mi vorrebbe con lei in questa operazione. Accetto e a gennaio 2018 comincio questa collaborazione, col botto. Perché già al primo articolo, un pezzo ironico, ahimé mi piace giocare sull’ironia, che parla del nuovo singolo di Emma, paragonando la cantante salentina a una che ha messo su una Tribute Band degli U2, tanto l’arrangiamento e la struttura compositiva del brano è identica a Where the Streets Have No Name, l’editore chiede la mia testa, reo di aver in qualche modo incrinato un rapporto tra l’editore stesso e la Universal, col quale l’editore sta facendo non so che operazione commerciale. Ovviamente la Lucarelli mi difende, e procedo con un secondo pezzo, non meno ironico sul brano nuovo di Takagi e Ketra, che ospita un poco ispirato Tommaso Paradiso, sempre lui, e Elisa. Apriti cielo, l’editore chiede ancora la mia testa, perché con Tommaso Paradiso sta per fare un’altra operazione commerciale, credo con un marchio di jeans. Dico a Selvaggia che il prossimo sarà un pezzo agiografico, così non si inalbera nessuno. Scrivo quindi una sorta di monografia su Umberto Maria Giardini, un tempo Moltheni e proprio in quei giorni impegnato con una nuova band, gli Stella Maris. Non va bene neanche quello, perché è troppo positiva e parla di un artista di nicchia, sembra una mia provocazione.
Nel mentre, negli anni precedenti, sono diventato una voce radiofonica, su Rtl 102.5, nonostante io abbia più e più volte criticato duramente il patron Lorenzo Suraci e anche la musica che passano, e un volto televisivo, ospite fisso delle due edizioni del DopoFestival targato Nicola Savino e Gialappa’s Band e cominciando a passare come opinionista a TvTalk, su Rai3. Durante il Festival di Sanremo 2018 tra gli autori del DopoFestival, condotto da Edoardo Leo, c’è il direttore di Rolling Stone cartaceo, Giovanni Robertini, il quale ovviamente poco apprezza che a dirigere il sito sia stata chiamata la Lucarelli, prima dirigeva tutto lui, quindi la mia presenza fissa neanche viene presa in considerazione. Anzi, non sarei proprio invitato, non fosse che la cosa è troppo smaccata, sui social se ne chiede ragione. Così vado solo all’ultima puntata, unico giornalista presente con Gino Castaldo. Bene, ma non benissimo.
La faccio breve, andiamo avanti così per tre mesi, un continuo scontro, finché scrivo un pezzo sulla presentazione del disco nuovo di Laura Pausini, quello presentato al Circo Massimo, col volo Milano-Roma-Milano, e stavolta è Marco Alboni, che per altro conosco da una vita, a criticarmi sui social, duramente. Niente di nuovo, io e lui ci conosciamo di persona, siamo usi commentarci vicendevolmente. Ma per l’editore è troppo, ha paura che un discografico gli si metta contro. Finisce anche questa collaborazione, amen, ce ne faremo tutti una ragione.
Continuo a scrivere su Linkiesta, dove faccio le mie inchieste senza che nessuno opponga resistenza, libero di scrivere quel che voglio.
Scrivo alcuni pezzi sul sistema che in qualche modo ha come perno Ferdinando Salzano, di lì a poco coinvolto come manager di Baglioni nel prossimo Festival di Sanremo e al centro di un chiarissimo conflitto di interessi. La cosa balza agli onori della cronaca, prima ripreso e amplificato da DagoSpia, poi da Pinuccio, che ripetutamente mi invita a comparire nei suoi servizi a Striscia la Notizia. Divento in qualche modo anche più mainstream di quanto Rtl 102.5 e il DopoFestival non abbiano fatto.
Inizio a scrivere per OptiMagazine, ma magari questo già lo sapete.
La faccende del conflitto di interessi di Baglioni e Salzano diventa un caso nazionale, interrogazioni parlamentari, oggetto del lancio della prima conferenza stampa della direttrice di Rai1 De Santis, io esco per sempre dai programmi Rai. Non mi invitano al DopoFestival, dopo aver ventilato di non darmi neanche il pass per il Festival, poi esco anche dal giro degli ospiti dei programmi Rai, niente più TvTalk.
Arriva un nuovo Sanremo, e sempre coi miei pezzi e con in collaborazione con DagoSpia e Striscia la Notizia lancio un’altra inchiesta, stavolta su un conflitto di interessi che riguarda direttamente uno stretto collaboratore dell’AD della Rai, Salini, Marcello Giannotti, fino a poco prima parte di MN Holding, in procinto di diventare ufficio stampa del Festival.
Perdo una serie di ospiti per i miei programmi da Sanremo, alcuni fatti anche con OptiMagazine, li ricorderete, e questa cosa va avanti ancora oggi, una sorta di fatwa da parte di un potente ufficio stampa.
Tempo qualche mese e anche la collaborazione con Linkiesta finisce, sempre per medesimi motivi. Scrivo del tour di Jovanotti, il Jova Beach Party, e ne scrivo in maniera critica. Arriva un nuovo direttore, Christian Rocca, che è per una sorta di linea democristiana, niente divisività, solo grandi inchini a quattro zampe.
Ora, non ho fatto questa per altro parziale panoramica sulle volte che in vita mia ho perso collaborazioni o sono stato punito per aver scritto o detto qualcosa per dipingermi come un eroe, come invece sta capitando a qualcuno ben più in vista di me per sua stessa mano, sono consapevole di aver scritto quello che volevo, senza pressioni (per scriverlo, alcune per non scriverlo le ho evidentemente subite) e in piena libertà, sapendo cioè cosa rischiavo e decidendo di correre i miei rischi. Per contro, non sono ingenuo e non voglio fingermi più naif di quanto non sia, so perfettamente che essere il solo, o uno dei pochi, in Italia, a dire quel che pensa in un micromondo come quello della musica, mi ha anche portato dei benefici, il mio nome è circolato, è diventato influente e anche noto, ho potuto accendere collaborazioni, penso a Rtl 102.5 e essere invitato in certi contesti, penso al DopoFestival di Savino, proprio per il mio essere quello non allineato, dicessi che le cose non stanno così mentirei, ma nell’insieme quel che ho pagato è assai più caro di quel che ho ricevuto, complice la mia scelta di non andare in certi talent, dove per altro sono stato più e più volte invitato.
La censura è una cosa seria, serissima, che andrebbe sempre combattuta, e chi la subisce la subisce senza aver modo di reagire, se è debole ci resta schiacciato, perde il lavoro, perde occasioni, se è un minimo strutturato può provare a resistere, spostandosi altrove e facendo del proprio essere quello che per il proprio dire viene censurato una sorta di vessillo, qualcosa che contribuisce a rendere un nome quel nome e una penna riconoscibile.
Quindi, se penso alla censura, penso a chi viene oscurato, messo a tacere, schiacciato, non a chi ha modo di giocare in controtempo, dichiarando anzitempo che dirà cose censurabili, per poi andare a dirle forte del clamore che una ipotetica censura porterebbe automaticamente, penso a uno che se perde anche un solo passaggio tv perde soldi e lavoro, non a chi ha economie sufficienti a fare tutte le battaglie del mondo e soprattutto sa come gestire un media potente come la rete e lo usa alla perfezione, costruendo una strategia in grado di far giustamente passare i dirigenti Rai come censori che fanno pressioni, poco conta che di censure in effetti non ce ne siano state. Discorso a parte si potrebbe aprire sul ruolo di editore della Rai, perché che un editore voglia mettere bocca su quel che accade nei programmi che trasmette è parte del gioco, e che l’editore Rai sia in mano alla politica non è una ingerenza della politica, ma la logica conseguenza di un sistema che questo prevede, i programmi Rai non sono un megafono dentro il quale ognuno può dire quel che vuole, credo, almeno questo desumo dal fatto che, per quello che ho detto proprio sulla Rai, io di colpo non ci ho più messo piede.
Traduco, nessuno ha censurato Fedez, che ha fatto in diretta tv esattamente il discorso che voleva fare. Quando in passato la Rai ha voluto censurare l’ha fatto, si pensi a Piero Pelù, a Caparezza, a Elio e le Storie Tese, o si pensi agli assai meno noti Management del Dolore Post-Operatorio che, per aver messo in scena una consacrazione eucaristica vagamente blasfema, atta a criticare la Chiesa per la sua posizione riguardo l’uso del preservativo, hanno visto la loro esibizione in diretta tv interrotta inverecondamente, vai di pubblicità. Poi, è chiaro, il fatto che il cantante Luca Romagnoli abbia reagito tirando fuori il pisello, magari, ha contribuito a che la performance finisse anche a beneficio di chi era accorso in piazza San Giovanni, ma questa è altra faccenda.
Se la Rai, come il Fatto Quotidiano, Rolling Stone o chicchessia vuole censurarti ti censura, e basta. Chi prova a farlo goffamente non vuole realmente farlo, anche se ti chiami Fedez, o forse proprio perché ti chiami Fedez.
Andrebbe aperto un discorso a parte sul ruolo degli editori, perché in teoria non è che un programma di un qualsiasi canale sia un open-mic, dove chiunque arriva e dice quel che vuole. Pensate se invece che parlare del DDL Zan Fedez avesse voluto fare un discorso antisemita o dire che il leghista che sostiene che bruciare i gay nei forni è giusto, tutti avremmo giustamente urlato: “Ma la Rai in tutto questo dov’è?”. Gli stessi tutti, per altro, che proprio poche ore prima si chiedevano dove fosse Mediaset mentre Pio e Amedeo dicevano che per rispondere agli insulti sessisti, omofobi e razzisti basta riderci su.
L’editoria esiste da tempo, direi, accorgersene solo quando viene apparentemente toccato chi la pensa come noi è cosa anomala, quantomeno. Non sapere come funziona non rende la faccenda più iconica, semplicemente fa di chi se ne accorge solo ora qualcuno non esattamente informato delle cose del mondo.
Bene venga, quindi, l’attenzione sul DDL Zan che il discorso di Fedez ha in qualche modo alimentato, anche se ieri tutti parlavano di lui e della presunta censura della Rai, non certo del DDL Zan, meno bene va che a fare ora questa battaglia, anche sulla censura sia chi, col suo dire e il suo fare ha dato vita in un passato neanche troppo remoto a censure anche pesanti, ve lo dice uno che anche per quello ci ha perso un lavoro senza mai ricevere le sue scuse.