The Handmaid’s Tale 4 rischia di sfociare nella pornografia della sofferenza e della tortura

The Handmaid's Tale 4 dovrà superare questo impasse in cui si sta avvitando, quello di bearsi delle sue perversioni e di cercare l'empatia dello spettatore in modo morboso

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The Handmaid’s Tale 4 è ripartita all’insegna dello stesso schema che ne ha fatto la fortuna finora: la ribellione dell’Ancella June e delle sue compagne, la fuga da Gilead, poi la cattura e la vendetta del regime. In questo inizio della stagione che vede il debutto alla regia della protagonista Elisabeth Moss, però, la distopia sembra sempre più sfociare nella pornografia della sofferenza e della tortura.

I primi tre episodi di The Handmaid’s Tale 4, arrivati su TIMVision il 29 aprile, sembrano avere un unico comune scopo: rendere ancora più soffocante, tetro e repulsivo il racconto fatto finora del mondo di Gilead. Ex Stati Uniti, ora quel territorio è uno Stato governato da una teocrazia cattofascista, con una società divisa rigidamente in caste e con le poche donne fertili rimaste ridotte in schiavitù sessuale, col solo fine di procreare in una società perlopiù sterile: se non bastasse questo a rendere un inferno la vita delle Ancelle – già strappate alle loro vite, divise dai figli naturali, stuprate dai Comandanti perché mettano al mondo i figli della classe dirigente, private di ogni libertà, punite, seviziate, umiliate – la quarta stagione aggiunge a tutto ciò una specie di gusto per la tortura elevato ad una potenza mai vista finora.

The Handmaid’s Tale 4 riparte esattamente da dove eravamo rimasti nel finale della terza stagione: June e la rete delle Marta ora sono parte del Mayday, la resistenza interna di Gilead che prova a rovesciare il sistema, hanno portato a Toronto 86 bambini nascosti su un aereo e sono ricercate dalle forze armate. Il loro nascondiglio in una fattoria di collaborazionisti dura molto poco, anche se questa permanenza ha un impatto radicale su June, che svilupperà un rapporto quasi materno nei confronti di una giovanissima Moglie abusata a più riprese da vari Comandanti e Occhi, fino a spingerla ad uccidere a sangue freddo uno dei suoi violentatori. E con una certa soddisfazione (“Rendimi orgogliosa!“). Soddisfazione che si ripete quanto si tratta di avvelenare un gruppo di Comandanti in un bordello di Chicago mentre le Ancelle pianificano la loro fuga in un’altra fattoria, ma la corsa di June terminerà a sorpresa di fronte a Nick. Ormai Comandante, il padre di sua figlia le assicura di essere intenzionato a salvarle la vita, ma nulla può contro una serie di torture che Zia Lydia e un tenente le infliggeranno per sapere dove sono scappate Jeanine, Alma e le altre.

Il terzo episodio di The Handmaid’s Tale 4 è il debutto alla regia di Elisabeth Moss: egregio dal punto di vista stilistico, è però una continua inflizione di castighi alla protagonista e, in un certo senso, allo spettatore. Si ha quasi la sensazione che, come June stia annegando durante il waterboarding, l’intera serie rischi di soffocare nel circolo vizioso di una violenza sempre più esplicita e sempre più gratuita, ma paradossalmente resa affascinante da una regia sempre impeccabile – anche quella da esordiente della Moss – e da una fotografia che gioca un ruolo centrale nel creare un senso di claustrofobia perenne.

Si dirà che le scene di tortura del terzo episodio di The Handmaid’s Tale 4 non sono certo una novità: la serie ha sviluppato una sua estetica del dolore in questi anni ed è stata capace di renderla intrigante quanto repulsiva, allo stesso tempo, conferendole un peso specifico enorme, quello di ricordare come la perdita progressiva di diritti porti a degenerazioni inimmaginabili in uno stato civile. Ora però quella stessa estetica rischia però di ridursi a mera pornografia della sofferenza. Un episodio che con l’interrogatorio a June, tra annegamento simulato, minacce di strapparle via le unghie, la prigionia in un baule, richiama tristi pagine della storia americana della lotta al terrorismo degli ultimi vent’anni e attinge a piene mani dalla cinematografia sui servizi segreti. Dal banale ma costante tintinnio delle catene fino alla violenza psicologica di vedere sua figlia rinchiusa in una gabbia di vetro, questo episodio è il più gratuitamente violento mai visto finora (e dire che tra stupri, taser, manganellate ed esecuzioni di piazza ne abbiamo viste). Paradossalmente, verrebbe da dire, visto che è diretto da Elisabeth Moss, anche produttrice esecutiva della serie e – in quanto tale – con potere decisionale su cosa va in onda e cosa no (prerogativa che ha sempre rivendicato, quella di decidere sui contenuti, da quando ha scelto di entrare nella produzione). Un episodio che fino alla fine costringe il telespettatore a indugiare sui dettagli della tortura: perfino quando tutto sembra finito, tocca vedere il sangue sgorgare dalle ferite di June, mentre la sua schiena nuda viene lavata con gli idranti, un modo morboso di cercare l’empatia del pubblico schiaffandogli in faccia le stimmate di un corpo martoriato. E ancora, è gratuitamente violento quando quando le Ancelle tentano l’ennesima fuga dalla Colonia a cui stanno per essere destinate: una fuga che si trasforma in una strage, con due di loro uccise da una guardia e due travolte da un treno in corsa sotto gli occhi di June e Jeanine. Per l’ennesima volta la spettacolarità della sofferenza supera di gran lunga ogni aspettativa e viene da chiedersi quanto ancora uno spettatore possa trovare soddisfazione e piacere in questo racconto (se non per gli amanti del sadismo).

Questi primi tre episodi di The Handmaid’s Tale 4 affrontano poi un altro tema problematico, quello di trasformare le vittime in carnefici. E non si tratta solo della vendetta di donne schiavizzate, stuprate e annientate nei confronti dei loro abusatori: la serie introduce anche un elemento di gusto nell’assumere alcune sembianze di coloro che si vuole combattere. June è orgogliosa dell’esecuzione di un Comandante, sebbene capisca che questo la sta trasformando: il paradosso è che questa trasformazione avviene mentre a Toronto, in pubblico, Rita tesse le sue lodi definendola un’eroina (“Gilead tira fuori il peggio dalle persone, nel caso di June ha tirato fuori il meglio“). Forse la definizione migliore per June è Partigiana: ha deciso da che parte stare, quella degli oppressi e degli abusati, delle donne senza diritti e dei bambini trattati come strumento di potere, e per questo è disposta anche a macchiarsi le mani del sangue dei suoi nemici provando un’amara soddisfazione nella vendetta, come quando fu necessario debellare il nazifascismo anche imbracciando le armi.

Nonostante questa deriva sulla gratuità del dolore, The Handmaid’s Tale 4 continua ad essere una serie talmente magnetica da non ammettere distrazioni. Disturbante lo è sempre stato, ma ora questo racconto arriva al punto da indurre a chiedersi fino a quanto si possa resistere ad una continua induzione del disgusto, ad un sadismo esibito con gloria, ad un certo piacere della sofferenza che rischiano di diventare il vero marchio distintivo della serie. E sarebbe un peccato, perché c’è molto altro nel mondo che Bruce Miller ha creato sulla base del racconto distopico di Margaret Atwood e la distopia non dovrebbe essere divorata dal gusto per la crudeltà. Resta molto poco all’inizio di questa quarta stagione che faccia sperare in un’attenuazione di questa atrocità esibita. In questo poco c’è ancora – quasi inspiegabilmente vista la lunga lontananza tra i due – l’amore tra June e Nick (in quanto Comandante davvero piuttosto inerte!), e soprattutto c’è la perseveranza di una donna che non vuole essere salvata, ma cerca in se stessa e nella sorellanza con le sue compagne di sventura il proprio riscatto da umiliazioni continue. Altro tratto interessante è che nessuno dei personaggi rifiuta di credere in Dio nonostante in nome di quello stesso Dio siano perpetrati crimini contro l’umanità: June continua a credere che un Dio buono ci sia, così come in Canada si continua a pregare per la liberazione delle Ancelle. Manca del tutto un concetto di laicità radicale e profondo, che pure ci si aspetterebbe in un mondo in cui la teocrazia ha eliminato ogni conquista di libertà.

The Handmaid’s Tale 4 dovrà superare questo impasse in cui si sta avvitando, quello di bearsi delle sue perversioni: lo stesso personaggio di June rischia di finire in un ciclo che si ripete sempre uguale (la ribellione, la fuga, la punizione e la resa, poi di nuovo da capo) in una sostanziale stagnazione. Solo uscendo da questo terreno paludoso la trama potrà riprendere ed evolversi verso con un respiro più ampio, quello che sembrava aver acquisito alla fine della terza stagione quando l’arresto di Waterford in Canada e l’operazione coi bambini in fuga sembrava avere impresso alla storia una svolta sul piano geopolitico. E considerando che c’è già una quinta stagione in produzione, questa in corso dovrà dimostrare di saper evitare il rischio di appiattirsi su una trama troppo diluita sugli stessi costanti elementi ormai più che ampiamente sviscerati.