Ognuno affronta le avversità della vita come può, in alcuni casi anche come vuole. Esistesse una regola valida per tutti, beh, probabilmente la faccenda sarebbe assai più facile, ma purtroppo tocca molto spesso lasciarsi andare a improvvisazione, starsene lì pronti a rispondere pan per focaccia al Destino, tentando di finire in piedi al suono dell’ultimo Gong.
Certo, andando avanti, e se si è lucidi, o in possibilità di rimanere lucidi, lungi da me dare giudizi sommari sul modo di vivere degli altri, ancor meno intendo farlo sulla vita che si vive a prescindere dalla propria volontà, uno inizia a farsi dei canoni coi quali affrontare gli standard, si improvvisa sempre, cioè, ma un po’ meno di quanto potrebbe sembrare.
Succede una determinata cosa? Bene, ci siamo già passati, reagiamo di conseguenza.
Ne succede un’altra? Idem.
Poi, è accaduto recentemente, arrivano eventi imprevedibili, eccezionali, macroscopici, e tutti gli appunti che ci eravamo segnati sull’agendina vanno a puttane, nulla di quanto pensavamo di aver imparato ha alcun senso, tocca di nuovo mettersi lì, in mezzo al flusso, e sperare di uscirne il più possibile indenni.
Del resto l’uomo è un animale che tende a adattarsi a un po’ tutte le situazioni, i sopravvissuti ai campi di concentramento, chi passa la vita dentro un polmone d’acciaio, più in generale chi nasce nella parte sbagliata del pianeta e si ritrova a dover combattere tutti i giorni per sopravvivere ce lo dimostra.
Chiaramente il vivere nell’agio ci spunta le spade, quando poi si trattasse di dover combattere, ma anche se si è sempre vissuti comodamente, è istinto di sopravvivenza, è quanto ci portiamo iscritto nel codice genetico dai tempi dei tempi, sappiamo ricorrere a risorse che neanche sapevamo di avere, tiriamo fuori i canini e se necessario mordiamo.
Oppure moriamo, certo.
Non voglio star qui a farne un discorso darwiniano, figuriamoci, né a raccontare che si porta sempre a casa la pellaccia, non è vero e non avrei alcun interesse a raccontare le cose per come non stanno.
Ma se siamo qui, io a scrivere, adesso, e voi a leggere, in un adesso che è solo vostro, e che sicuramente non coincide con l’adesso in cui io sto scrivendo, significa che almeno fin qui ci siamo arrivati, pandemia o non pandemia.
E io ci sono arrivato, qui, davanti a questo computer, a scrivere parole una dietro l’altra, tante, troppe, forse, proprio perché ho scritto. Anzi, proprio perché scrivo. Attenzione, ci sono arrivato anche per tutta una serie di altri motivi, più che validi, essermi preso cura di me e dei miei cari, stando attento a non correre rischi, rischi che non ho corso anche in virtù di un destino benevolo, che io tendo a identificare con Dio, il fatalismo non è parte della mia cultura, oltre che per la presenza costante della mia numerosa famiglia al mio fianco, a prendesi cura di me.
Metteteci pure l’essere nato in un paese che comunque ha un sistema sanitario decente, anche se evidentemente la regione dove ho scelto di andare in esilio e vivere, la Lombardia, molto meno di quanto ci aveva dato a intendere negli anni, e metteteci pure che, seppur l’anno appena passato sia stato per me, professionalmente, una sorta di martellata data sulle palle, tutto quello che avevo progettato e iniziato a costruire andato all’aria, probabilmente per sempre, il settore nel quale ho scelto di operare, quello della musica, agonizzante, se non già morto e risorto, metteteci comunque il fatto che, seppur l’anno appena passato sia stato un disastro, ho continuato comunque a lavorare, e così mia moglie, la casa che avevamo costruito, per dirla evangelicamente, non aveva fondamenta affondate sulla sabbia, e questo decisamente è stato di grande aiuto.
Ma nonostante tutto se io sono arrivato, qui, davanti a questo computer, a scrivere parole una dietro l’altra, tante, troppe, forse, proprio perché ho scritto. Anzi, proprio perché scrivo.
Perché un anno e un mese fa, quasi un anno e due mesi fa, mi verrebbe da dire, il 24 febbraio, ho deciso che avrei accompagnato quello che inizialmente pensavo sarebbe stata una decina di giorni, Boccaccio e il suo Decameron a farmi da matrice, scrivendo un diario dell’isolamento, diario che col tempo si è ampliato, nel numero dei capitoli, diario che ha trovato una pausa estiva, perché di colpo sembrava che la situazione fosse migliora, e migliorata a tal punto da lasciar presagire un subitaneo lieto fine, il tempo di tirare un sospiro di sollievo, ricominciare a buttare giù progetti, costruendo nuove case su quelle macerie, e via, un nuovo diario, al punto che a oggi sono arrivato a duecentosessanta capitoli complessivi, qualcosa come cinque milioni e quattrocentomila battute, se vi è più facile focalizzare la scena parlando di parole, no problem, oltre novecentomila parole, cui dovrei aggiungere, così, tanto per rendere ulterioremente l’idea, quelle dei libri che ho scritto nel mentre, uno è uscito a fine 2020, un altro paio usciranno prima dell’estate, un altro paio, ancora, in autunno, mettiamoci un altro milioncino di battute, a stare stretti, quasi duecentomila parole in più. Per non dire degli articoli che ho scritto durante l’estate e finché non ho ripreso a scrivere questo diario.
Dai, non fatemi dare ancora numeri, è facile capire come le parole mi siano state ben più che di sostegno, siano state lo scudo col quale ho respinto colpo su colpo quel che la vita mi stava parando di fronte, non solo perché scrivere è il mio mestiere, anche, certo, fortunatamente scrivere è lavoro che si può fare anche in smart working, anzi, si è sempre fatto in smart working, la sola differenza, da quel punto di vista, è che prima a lavorare in casa mia c’ero solo io, oggi siamo in sette, praticamente tutti fissi in casa, non solo perché scrivere è il mio mestiere, dicevo, ma perché le parole, a differenza di quello che è mosso dagli uomini, o magari anche dalla natura, è materia che posso controllare, di cui conosco trucchi e inganni, con la quale mi posso confrontare forte di una destrezza che mi permette, anche in un periodo così anomalo, di non rimanere mai davanti alla pagina vuota, anche quando apparentemente davvero nulla da dire ci sarebbe, la musica, ripeto, è agonizzante, forse è morta e ora si aggira come uno zombie per i campi, io, Negan, lì a colpirla con la mia Lucille (che bella, en passant, l’ultima puntata della decima stagione di The Walking Dead, ecco uno spoiler, andate oltre la parentesi, adesso, non lo ripeto più, spoiler, andate oltre, adesso, la storia di come Negan sia diventato Negan, la storia di Lucille, la fine di Lucille, quante lacrime per un villain come ce ne sono stati pochi, dentro la televisione, mica è un caso che io abbia adottato una mazza da baseball tra i miei simboli iconografici), che mi permette, dicevo, anche in un periodo così anomalo, di non rimanere mai davanti alla pagina vuota, e se anche adesso sto scrivendo, nel mio adesso, e voi state leggendo, nel vostro adesso, significa che in fondo questo mio pensiero ha un senso.
Ognuno affronta quindi le avversità della vita come può, in alcuni casi anche come vuole. Ryan Adams ha appena provato a farlo nella sola maniera che sa, scrivendo canzoni e cantandole. Ne parlavo neanche troppo tempo fa, qui , sottolineando, non voglio tornarci su anche oggi, come io trovi del tutto assurdo che si pretenda la moralità da un artista, e soprattutto dall’arte, il tutto in relazione a un presunto scandalo a sfondo sessuale che lo ha devastato, scandalo che al momento non ha ancora avuto nessuna evidenza nei tribunali, andrebbe sempre sottolineato anche per evitare che a emettere sentenze sia il tribunale del web o della strada, e che comunque ne ha sostanzialmente decretato la morte artistica, il suo ultimo album, per altro bellissimo, Wednesdays non cagato da praticamente tutti i media, anche quelli di settore, e laddove lo abbiano cagato i giudizi sono sempre stati rivolti alla persona, mai all’artista e men che meno all’opera, bigotti e ipocriti del cazzo.
Ma di questo ho già parlato, vado oltre.
Ryan Adams, devastato, una carriera evaporata in men che non si dica, con una delle sue accusatrici, sua ex compagna per una breve parte della vita, nonché collega, Phoebe Bridges, a permettersi di prendere per il culo una carriera che lei, al momento, non può neanche immaginarsi, diciamolo seriamente, scrivile quelle canzoni e poi ne parliamo, a permettersi di prendere per il culo la sua carriera dicendo che lui ha avuto successo solo per una cover acustica di Wanderwall degli Oasis, ammazza l’umorismo, in effetti dalla sua penna è già uscito più di un capolavoro, credo possa permettersi giudizi tranchant sulle canzoni, Ryan Adams, devastato, una carriera evaporata in men che non si dica, ha iniziato una operazione sui social che suppongo non risolleverà nulla, dal punto di vista della medesima carriera, né da un punto di vista di “operazione simpatia”, ancor meno dal punto di vista commerciale, visto che di operazione social e non commerciale si tratta, ha infatti iniziato a pubblicare ogni giorno sul suo profilo Instagram brevi, brevissime canzoni, tra i quaranta e i sessanta secondi, IG non permette video più lunghi di così, non bozzetti, attenzione, ma vere e proprie canzoni in miniatura, che in qualche modo diano ancora una volta modo di vederne il talento, ma che soprattutto gli permettano di provare a risistemare i cocci, i pezzetti di orgoglio, cuore e quant’altro che il nostro ha trovato buttato nel cesto della pattumiera, senza possibilità di appello.
Chiarito credo in maniera sufficientemente precisa come io la pensi riguardo questa situazione, ripeto, l’arte non deve essere oggetto di giudizi morali, e gli artisti, quando creano, della moralità non si devono occupare, come quanti con l’arte intendono confrontarsi, tenderei a suggerirvi di andare a sentire cosa Ryan Adams ha fatto fin qui, piccoli gioielli di malinconia acustica, tra memorie e sogni infranti, tra disperazione e autopsiconalisi, canzoncine mignon come Life Before the War, Try Againg Tomorrow, Therapist Dis, inutile io stia qui a citarvele tutte, anche perché nel mentre ne avrà tirate fuori altre, una al giorno, questo il suo progetto, sembra, più tracce vocali, la chitarra acustica a farla da padrona, a volte una percussione, praticamente mai, una idea geniale per affrontare i giorni più cupi della sua vita, io invece voglio provare a partire da qui per andare altrove, lasciando Ryan ai suoi mesti affari, conscio che se la scrittura ha salvato me dalla pandemia, o meglio, dalla follia che stare di colpo immobile, isolato seppur circondato da persone, il mondo intorno a me, quello professionale ma più in generale il mondo, a vacillare, sgretolarsi, forse la scrittura, di canzoni mignon, potrebbe salvare anche lui.
Dove voglio andare a parare, quindi?, questa la domanda da porsi in questo passaggio.
Voglio andare a parare che oggi come oggi, in questo clima di immobilismo che onestamente dubito lascerà spazio a una ripresa imminente, ho sorriso perplesso quando ho letto delle date annunciate all’Arena di Verona, a partire da Emma il 6, 7 e 8 giugno, con seimila persone in presenza, perché ancora nessuna indicazione a riguardo è arrivata dal CTS o dal Governo, mentre il CTS ha gelato la FIGC riguardo l’ipotesi di riportare il pubblico, seppur parziale, negli stadi per gli Europei di Calcio, se tanto mi da tanto ecco cosa accadrà anche all’Arena di Verona, ecco, in questo clima di immobilismo che onestamente dubito lascerà spazio a una ripresa imminente credo che sia davvero il caso di armarsi di buona fantasia e di pazienza e iniziare a cercare di capire come arginare il tutto sfornando idee che risultino coerenti ma anche sufficientemente dotate di originalità e fantasia, esattamente come quella sfornata or’ora da Ryan Adams.
Intendiamoci, non è che ora io stia qui a evocare che qualche nostro autore faccia lo stesso, quell’idea, di Ryan Adams, è coerente a Ryan Adams, o al Ryan Adams devastato di adesso, fatta da altri potrebbe anche risultare posticcia o poco a fuoco, così come se un mio sedicente collega, non fatemi sporcare queste pagine facendone i nomi, avesse voluto cimentarsi in un tour de force letterario come questo diario, dai, rido solo a pensarci, ci si sarebbe schiantato già alla seconda o terza puntata, le idee non solo tocca averle, ma tocca averle che ci stiano a pennello addosso, che ci calzino bene.
Cosa mi piacerebbe quindi vedere, leggere o ascoltare, chiaro che pensando a Instagram dovrei fermarmi al secondo e terzo verbo, leggere non è esattamente quel che da quelle parti capita più spesso di fare, ecco, credo che un’idea, attenzione, non ve la sto regalando a vostro buon uso, sto semplicemente buttando lì un’idea, con la pretesa che magari si concretizzi, si materializzi, diventi carne e sangue, credo che un’idea potrebbe essere quella di fare qualcosa a puntate, video e voce che si fondono, e in quel caso la parola scritta potrebbe diventare parola letta, o recitata, e l’immagine, chissà, potrebbe essere fissa o in movimento, Ryan Adams non ha pubblicato video, ma fermi immagine, come copertine, sotto i quali scorrono le note e le parole delle sue canzoni mignon, i sessanta secondi sono il limite imposto da quel social, seppur poi si potrebbe sforare e andare su IGTV, ma la sfida dei sessanta secondi mi sembra davvero azzeccata, anzi, decisamente quella giusta.
Si potrebbe raccontare una storia a puntate, sessanta secondi massimo al giorno. Lo si potrebbe fare a più voci, una al giorno, a cui affidare i sessanta secondi. Lo si potrebbe fare lasciando alle voci il potere di decidere che storia raccontare, o come raccontarla, o tenendosi il pallino in mano, lasciando alle voci il compito di interpretare, magari anche fedelmente. Si potrebbe addirittura decidere di raccontare sempre la stessa storiella, cambiando voce e quindi lasciando che l’interprete, appunto, interpreti, dia una sua versione dei fatti, modifichi a piacimento trama e mood, o invece, fornendo agli interpreti trame e mood aderenti alle loro voci, come negli Esercizi di stile di Raymond Queneau, cambiare di volta in volta gli ingredienti, il nome del piatto, il piatto stesso, pur rimanendo sempre lì. Caspita, associare la parola “stile” al nome “Ryan Adams”, immagino, mi procurerà una bella valanga di merda, ma ne valeva la pena.
Tornando a noi. Sono vago, perché sto ragionando a voce alta, non so neanche io esattamente cosa vorrei sentire e vedere, e non so se mi voglio vedere solo nei panni dello spettatore, e non magari, in quelli del narratore, dell’autore, del regista.
Che so?, a volte ho ragionato sull’idea di fare antologie di cover, parlo di parole, non di canzoni, prendere cioè dei racconti famosi, famosissimi, o magari non famosi, del tutto sconosciuti, e reinterpretarli, farne appunto una cover. Un po’ come funziona nel mondo della musica, delle canzoni. Non è cosa inedita, credo, penso alle favole di Angela Carter, per dire, ma in genere viene vista come una rilettura, la cover prevede ingredienti che in genere sono tipicamente musicali. Lo si potrebbe fare anche partendo da un solo autore, come succede, che so?, quando un gruppo di artisti, è successo recentemente con Faber e con Guccini, decide di rendere omaggio a un maestro, scomparso o meno. Quindi tanti autori prendono i racconti di un autore singolo e ne riscrivono uno a testa, a proprio modo. O tanti autori prendono il racconto più noto di un autore e riscrivono tutti quello, mettendosi in qualche modo in competizione tra loro, chi lo farà nella maniera più originale, chi sarà al tempo stesso più fedele ma anche più capace di essere personale nell’essere fedele. Insomma, come avete capito quando si tratta di farmi venire idee a riguardo non ho quello che si dice il blocco dell’artista.
Solo che qui si parla di musica, in qualche modo, è il mondo della musica a essere piantato, non quello dei libri, e si tratta di trovare qualcosa di originale e coerente da proporre sui social in attesa che finalmente tutto quello che stiamo vivendo diventi tutto quello che abbiamo vissuto. Quindi magari, la butto lì, da coinvolgere dovrebbero o potrebbero essere artisti, donne penserei di primo acchito, così, sulla falsa riga di quanto fatto negli ultimi dieci anni, ma magari non solo donne, loro le voci coinvolte. Lanciare una sfida, che so?, raccontatemi quest’ultimo anno con un brano di massimo sessanta secondi. O raccontatemi quel che ci aspetta con un brano di massimo sessanta secondi. Basta che non ci si incarti e si rimanga fermi, perché è vero che la natura ci ha insegnato che quando siamo di fronte a un predatore a volte fingersi morti è la sola soluzione praticabile, nella speranza che il non poterci fare del male lo induca a non infierire su quelle che lui ritiene siano le nostre spoglie, e che annoiato se ne vada lasciandoci in salvo, ma è anche vero che dal fingere di essere morti all’essere morti è un attimo, chiudi gli occhi, aspetti che tutto passi, e non ti svegli più.