Green Book, il viaggio attraverso il razzismo di un film da Oscar con troppi clichés

Il racconto, tratto da una storia vera, della tournée d'un musicista nero e un autista bianco nel Sud razzista del 1962. Ottimi Mortensen e Mahershala Ali. Grandi incassi e 3 Oscar. Ma è un feel good movie accomodante. Su Rai Uno alle 21.25

Green Book

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Tutta questa storia parla d’amore e ci insegna a guardare al di là delle differenze”: Questo disse Peter Farrelly dal palcoscenico del Dolby Theatre di Los Angeles quando ritirò nel 2019 l’Oscar vinto per il miglior film con Green Book. Un titolo sorprendente per un regista che col fratello Bobby s’era distinto per racconti di comicità politicamente scorretta come lo scatenato Tutti Pazzi Per Mary. E che invece in quest’occasione ha fatto centro – successo di pubblico (320 milioni di dollari globalmente) e tra gli addetti ai lavori (tre Oscar e tre Golden Globes) – con un film agrodolce ispirato a una singolare storia vera.

Quella di Don Shirley (Mahershala Ali, vincitore della statuetta come non protagonista), musicista nero di estrazione classica, un virtuoso del pianoforte che vive a New York, di abitudini raffinate e frequentazioni altolocate (persino i Kennedy). Il quale, nel 1962 fa una tournée di due mesi negli Stati razzisti del Sud. Lo scorta l’autista Tony Vallelonga detto Lip (un Viggo Mortensen ingrassato per la parte), italoamericano che, appena perduto il suo lavoro di buttafuori al Copacabana, è alla ricerca di un ingaggio per racimolare qualche soldo. Due caratteri agli antipodi, insomma: l’artista colto e ipersensibile e l’uomo della strada cresciuto alla scuola della vita che, data l’estrazione, è un po’ razzista anche lui (getta nella pattumiera i bicchieri da cui hanno bevuto gli stagnini di colore che gli hanno aggiustato il lavandino).

Green Book (DVD)
  • The disk has Italian audio.
  • Viggo Mortensen, Mahershala Ali, Linda Cardellin (Actor)

Una sceneggiatura (terzo Oscar) scritta dallo stesso Farrelly con Brian Currie e soprattutto Nick Vallelonga, figlio di Tony che ha recuperato dalla memoria di famiglia la vicenda, Green Book ha diverse frecce al suo arco. A partire dalla bella intuizione alla base del titolo, ricavato dal The Negro Motorist Green Book, una guida che segnalava ai viaggiatori di colore i luoghi in cui avrebbero potuto pernottare senza correre rischi nel Sud segregazionista.

Il film scava dentro una potente contraddizione. Perché anche una persona come Tony, una volta allontanatosi dal ventre molle di New York, scopre la sconvolgente bellezza del paesaggio americano – “Non avevo mai capito quant’è bello questo paese, me ne rendo conto adesso”, scrive in una lettera alla moglie (Linda Cardellini). Allo stesso tempo però, è costretto a misurarsi col lato oscuro di quel mondo, abitato da persone profondamente, talvolta paradossalmente razziste. Perché può accadere che a Don Shirley, ospite d’onore applaudito sul palcoscenico dal pubblico bianco supposto progressista, appena terminato il concerto non venga consentito nemmeno di usare il bagno, ovviamente riservato ai bianchi.

Quel paradosso è continuamente rilanciato su Tony. In quanto italoamericano, non è esattamente a digiuno di discriminazione provata sulla propria pelle – basta il suo cognome a creare imbarazzo. Allo stesso tempo, però, lui applica a Don il riflesso condizionato dei pregiudizi di cui è infarcito il suo modello culturale di partenza. Così il lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti si trasforma in un lento processo di autoconsapevolezza. Tony inizialmente prende le difese di Don contro i razzisti di turno solo perché deve svolgere il suo lavoro, e perché anche contro di lui viene indirizzata qualche battuta di troppo. Ma nell’accumularsi di piccoli atti sgradevoli e gesti gravemente discriminatori, Tony comincia a riconoscere una logica odiosa che non gli è estranea, e con la quale dovrà necessariamente fare i conti.

Green Book cita e ribalta il classico A Spasso Con Daisy. Lì il nero era il povero che faceva da autista alla bianca facoltosa, con la quale finiva per stabilire un rapporto di amicizia fondato sulla condivisione di un sentimento di umanità. Qui il meccanismo è più complesso, perché è Don il benestante di alto lignaggio e cultura – con un difficile rapporto con la sua comunità, con cui non condivide praticamente nulla, dai gusti musicali a quelli gastronomici –, mentre Tony è il proletario senza un quattrino dai modi grossolani. E dunque l’incontro/scontro tra i due non è solo di natura razziale, ma anche di classe.

Bisogna riconoscere a Green Book il pregio di una sceneggiatura capace di costruire una progressione narrativa accorta, in cui il cambio di atteggiamento dei personaggi non si riduce a una folgorazione improvvisa e posticcia, ma è il risultato di una maturazione verosimile, interpretata con misura da entrambi i protagonisti, soprattutto Mortensen, che in lingua originale esibisce un apprezzabile slang italoamericano.

Allo stesso tempo non si può mancare di notare una certa meccanicità nella positività da feel good movie. La firma dello script di Nick Vallelonga non aiuta la definizione del personaggio del padre. Tony, certo, è di modi bruschi e un po’ volgare, ma è ritratto quasi come un santino. Nei due mesi della tournée svolge meticolosamente il suo lavoro e per il resto del tempo pensa perennemente sospirando alla dolce mogliettina cui scrive lettere romantiche, senza mai avere nessuna tentazione. Se pensiamo al milieu italoamericano survoltato dei film di Martin Scorsese, quello di Green Book finisce per sembrare un fondale di cartone, con le canzoni e gli affollati pranzi in famiglia usati in funzione prettamente scenografica.

Il film vuole essere una parabola sulla discriminazione che parla all’oggi. Eppure, pur apprezzandone la confezione, la struttura è quella, per dirla con Spike Lee, da film con il “magical negro”, il personaggio di colore la cui funzione, stringi stringi, è quella di consentire la maturazione del protagonista bianco, dalla cui prospettiva è raccontata la vicenda. E quindi gli stereotipi messi alla porta rientrano dalla finestra.

Un’impressione aggravata del tono conciliante di Green Book, nel quale processi rivoluzionari come l’abbattimento dei pregiudizi – tanto individuali che collettivi – diventano cose a portata di mano. In fondo basta saper ascoltare la voce del buon senso, che è un istinto naturale per uomini veraci e di buon cuore come Tony Vallelonga. E alla fine ci si ritrova tutti insieme a tavola, cullati dalle canzoni di Frank Sinatra e dall’atmosfera fatata del Natale. Decisamente troppo accomodante.