Rebecca, una storia di donne e di fantasmi per il primo capolavoro americano di Hitchcock

Un film gotico “all’inglese” per il maestro del brivido. Una suspense tutta psicologica, in un racconto in cui le protagoniste sono una casa e una donna che non compare mai

Rebecca

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Éric Rohmer e Claude Chabrol nella loro monografia su Alfred Hitchcock non hanno dubbi: “Rebecca è la prima manifestazione della maturità di un talento”. Hitchcock invece nutriva qualche riserva nei confronti del suo primo film americano. Nel celebre libro intervista con François Truffaut disse che Rebecca (con in italiano l’aggiunta del titolo La Prima Moglie) “non è un film di Hitchcock. È una specie di raccontino, una storia di vecchio tipo piuttosto démodé”. Il film fu tratto, fedelmente, dal romanzo omonimo di Daphne Du Maurier, un’autrice che, nonostante le perplessità del maestro, è all’origine di ben tre suoi film, insieme a La Taverna Della Giamaica del 1939 e il capolavoro Gli Uccelli del 1963. E Rohmer e Chabrol aggiungono: “Quel romanzo prolisso e un po’ stucchevole è diventato un giallo fiabesco, moderno e inquietante”.

Rebecca è in effetti un film singolare in cui s’accavallano motivi ed ispirazioni diverse. Rappresenta l’esordio nel cinema americano di Hitchcock, esordio prestigioso, perché realizzato sotto l’egida di un David O. Selznick all’apice della sua carriera di produttore, ai tempi cioè della realizzazione del blockbuster per definizione della storia di Hollywood, Via Col Vento. Eppure quel film americano ha un’aria inconfondibilmente inglese: inglesi gli attori, gli sceneggiatori (la fidata segretaria promossa ad autrice Joan Harrison, Philip MacDonald), il romanzo. E inglese è l’atmosfera da racconto gotico, col film che parte da un prologo sibillino e sospeso, in cui la voice over della protagonista dice di aver fatto un sogno sulla vecchia casa di Manderlay, riuscendo a varcare il pesante cancello, “come fossi uno spirito con poteri soprannaturali”, trovandosi però di fronte non più l’antica fiabesca dimora, ma un rudere corroso dal tempo e dagli eventi.

Rebecca La Prima Moglie (1940)
  • Oliver,Fontaine.Sanders (Actor)
  • Audience Rating: G (audience generale)

Già da qui, capiamo che questo è, nonostante quanto asserito dal regista, un film di Hitchcock, nella sua capacità di costruire una suspense non da thriller, che bensì scava dentro un enigma in cui entrano in gioco le inquietudini di una donna e quelle legate a una casa che, con tutta evidenza, nasconde un mistero.

Hitchcock non manca di notare che “la protagonista è la casa”. Però in un certo senso la casa, come aggiunge il critico Donald Ranvaud, è Rebecca. Ma chi è Rebecca? No, non è la protagonista che racconta il sogno. Rebecca è la prima moglie, ormai defunta, dell’aristocratico Maxim de Winter (Laurence Olivier), proprietario di Manderlay. Lo incontra casualmente una giovane donna (Joan Fontaine, ossia la protagonista; per tutto il film non sapremo mai il suo nome), dama di compagnia di una ricca americana in viaggio a Monte Carlo. Lei è povera, timida, insicura – “Non sono il tipo di persona che gli uomini sposano”, dice mestamente –, però Maxim comincia a frequentarla e in pochissimi giorni i due si sposano.

Questa è la parte, come dice Hithchock, della storia fiabesca di una Cenerentola che corona il suo sogno di sposare il principe. Dopo il film piega verso una storia di mistero, con l’arrivo a Manderlay. Un maniero principesco, un dedalo interminabile di stanze incastonate in un enorme giardino, che quasi anticipa la Xanadu wellesiana di Quarto Potere (altra casa che simboleggia un personaggio; e altra casa protetta da pesanti cancelli oltre i quali non si può andare). Manderlay è segnata dalla presenza oppressiva di Rebecca. Le cifre del suo nome sono ricamate in ogni dove. E c’è una inquietante governante, la signora Danvers (Judith Anderson), ovviamente ostile alla Fontaine, che vive nell’adorazione feticista della memoria della prima signora de Winter (accarezza febbrilmente la sua pelliccia, mostra con orgoglio la biancheria intima “ricamata a mano dalle suore”).

L’enigmatica Manderlay, vera protagonista di Rebecca

Rebecca diventa l’angoscioso confronto, ricco di una suspense tutta psicologica, tra una donna senza nome che aspira a costruirsene uno e l’immagine di un’altra donna. La quale, proprio perché appartiene al passato costituisce un’antagonista schiacciante, imbattibile. Sul film si sono concentrate le analisi di diverse studiose di matrice femminista (da Tania Modleski a Mary Ann Doane), che hanno sottolineato come, ponendo al centro della vicenda una figura assente che non può essere materialmente inquadrata, Rebecca si sottrae alla logica dello sguardo maschile che oggettifica la donna per controllarla e porla in una cornice tanto fisica quanto ideologica.

Non è solo la protagonista a subire il peso della memoria soffocante di Rebecca, ma anche lo stesso Maxim, corroso dai sensi di colpa e incapace di liberarsi dell’immagine della prima moglie che condiziona ogni sua scelta – anche il matrimonio con la Fontaine è talmente veloce da far sospettare che rappresenti sono un tentativo disperato di liberarsi del fantasma di Rebecca.

Quel fantasma non abbandona mai i protagonisti. Lei era morta per annegamento, con Maxim che ne aveva anche riconosciuto il cadavere. Ma quando un vascello affonda, i palombari accanto a questo relitto ne scoprono un altro, all’interno del quale trovano il corpo di Rebecca. Il suo ritorno coincide con un’accusa a Maxim – nella terza parte il film si trasforma in un poliziesco –, sospettato di essere l’assassinio della propria moglie.

Con questi salti a da un genere all’altro, dalla fiaba al racconto di mistero al poliziesco con processo, Rebecca sconfina nel romanzesco, con qualche squilibrio narrativo. Resta la forza di atmosfere gotiche perfettamente delineate, e la curvatura psicologica di un racconto febbrile strutturato come un racconto di fantasmi, tutti femminili. È un fantasma – e si racconta come tale nel sogno iniziale – Joan Fontaine, è un fantasma ovviamente Rebecca, che grazie alla sua assenza muove le pedine del racconto (ricordando un’altra “dea ex machina” che deriva il suo potere dal fatto di non vedersi mai, la protagonista del bellissimo Lettera A Tre Mogli di Joseph L. Mankiewicz). È un fantasma anche la governante: “La signora Danvers quasi non camminava – dice Hitchcock – non la si vedeva mai muoversi […] così era più terrificante, vederla camminare l’avrebbe umanizzata”. Invece viene trasformata in un essere enigmatico, disincarnato, non umano.

Rebecca è una magnifica storia di spettri e un’epopea dell’angoscia dell’identità, in cui il ruolo del maschio diviene accessorio a un triangolo al femminile. Con al centro Joan Fontaine, che cerca faticosamente di diventare sé stessa, sottraendosi al cono d’ombra proiettato su di lei dall’ingombrante memoria di Rebecca (che in chiave analitica diventa un sostituto del ruolo materno) e trovando una via verso la propria autonomia di donna e di moglie. E poiché, come dicevamo, la figura di Rebecca coincide con quella di Manderlay, l’emancipazione della Fontaine deve passare attraverso la scomparsa di questa asfissiante casa-labirinto. In conclusione, sì, Rohmer e Chabrol avevano ragione: “Rebecca è la prima manifestazione della maturità di un talento”.