Hitchcock/Truffaut di Kent Jones è un documentario imperdibile e bisogna ringraziare Cinema e Nexo Digital per averlo distribuito dal 4 al 6 aprile in oltre cento cinema italiani. Nell’agosto del 1962 Alfred Hitchcock e François Truffaut si trovarono l’uno di fronte all’altro per otto giorni, assistiti dell’interprete Helen Scott, per fare la cosa che amavano di più dopo il realizzare film: parlarne. Una fluviale intervista incentrata sulla carriera del maestro inglese trapiantato a Hollywood. Il quale però, all’epoca, non era ancora reputato un vero artista, nonostante il lavoro di revisione critica che ostinatamente andavano compiendo dagli anni Cinquanta i Cahiers du Cinéma, dove un gruppo di giovani appassionati, tutti futuri registi, Truffaut, Godard, Rivette, Chabrol, Rohmer, (questi ultimi due autori nel 1957 d’una fondamentale monografia su Hitchcock) riscrissero la storia del cinema mettendola sotto la lente della “Politica degli autori”. Nella quale le cose più importanti erano la qualità della messa in scena – il come e non il cosa – e la poetica del vero responsabile della creazione artistica, il regista.
E dal loro punto di vista nessuno era più autore di Hitchcock. Perché quell’inglese da tanti considerato nulla più che un brillante entertainer capace di congegnare accattivanti macchine da suspense, era invece un artista a tutto tondo, che ragionava in termini prettamente visivi e possedeva una completa padronanza del linguaggio cinematografico. Per questo, forte dell’esordio come regista con I 400 colpi e dello scandaloso successo internazionale del ménage à trois di Jules e Jim, Truffaut tornò con piglio da critico sul suo amore hitchcockiano, proponendo al maestro del brivido una lunghissima intervista per ripercorrere cronologicamente tutta la sua produzione, dai giovanili anni inglesi sino ai capolavori americani con stelle come Cary Grant e James Stewart e algide dive proverbialmente bionde, da Grace Kelly a Tippi Hedren.
Il risultato è quello che secondo molti è il più bel libro sull’arte del film, Il cinema secondo Hitchcock, pubblicato nel 1966 (in Italia uscì nel 1977 per un glorioso editore che non esiste più, Pratiche), sul quale si sono formati tutti gli appassionati, soprattutto i futuri registi. Perciò è naturale che Hitchcock/Truffaut sia integralmente strutturato sulle dichiarazioni di cineasti profondamente innamorati del cinema, dai quali trasuda una passione nutrita di attenta consapevolezza critica: Martin Scorsese ovviamente, che con Jones ha lavorato ad altri documentari sulla settima arte (Il mio viaggio in Italia, Val Lewton: The Man in the Shadows, A Letter to Elia), e poi David Fincher, Arnaud Desplechin, Kiyoshi Kurosawa, Wes Anderson, James Gray, Olivier Assayas, Richard Linklater, Peter Bogdanovich, Paul Schrader.
Soprattutto nel film ci sono le vive voci di Hitchcock e Truffaut, che registrarono integralmente le conversazioni, purtroppo solo in audio. Così si può apprezzare la sorniona reticenza del maestro del brivido, che talvolta chiede di interrompere la registrazione di fronte alle questioni più personali, ma sempre felicissimo di poter raccontare le ragioni delle scelte visive e narrative delle sue opere.
Hitchcock/Truffaut è una visione indispensabile per ragioni che non hanno niente a che vedere con la nostalgia o il gusto antiquario per i vecchi film. Guardare sul grande schermo le sequenze dei capolavori hitchcockiani – dal giovanile Il pensionante a Io confesso, le due versioni de L’uomo che sapeva troppo e La finestra sul cortile – non è solo emozionante, ma soprattutto consente di apprezzare la capacità hitchcockiana di pensare sempre in termini cinematografici, con una concentrazione assoluta sul significato delle immagini e sull’effetto che avrebbero dovuto ottenere sullo spettatore. Un esempio è la celebre sequenza del lunghissimo bacio tra Cary Grant e Ingrid Bergman in Notorious, che gli attori fecero malvolentieri, perché furono costretti a camminare abbracciati, con una postura assolutamente innaturale. “Che voi vi sentiate a vostro agio o no m’importa poco – disse loro Hitchcock – tutto quello che mi interessa è l’effetto che si otterrà sullo schermo”.
In Hitchcock/Truffaut i due registi – e con loro gli altri cineasti coinvolti – sottopongono l’arte hitchcockiana a uno smontaggio lungo due direzioni: da un lato, con meticolosità da filologi, vengono definite le regole e la sintassi del suo linguaggio cinematografico; dall’altro, con scrupolosità d’analista, quello filmico diventa un testo a chiave, nel quale sotto la superficie d’una grammatica fatta di sequenze e inquadrature ribolle una psiche profondamente cattolica segnata da senso di colpa, tensione spirituale, paura e fascinazione del male.
“La trama è un filo su cui appendere cose”, dice Scorsese parlando de La donna che visse due volte: e alcuni film di Hitchcock, come anche Psycho, mostrano bene quanto la storia costituisca quasi un pretesto sotto il quale si agitano predilezioni e ossessioni personalissime, che emergono attraverso stile, inquadrature, punti di vista. E chi meglio dei cineasti, che detengono il vocabolario d’una lingua fatta di movimenti di macchina, luci, raccordi di montaggio, potrebbe spiegarci natura e pieghe segrete del racconto cinematografico? È per questo che Il cinema secondo Hitchcock resta il più bel libro della storia del cinema. Ed è per questo che Hitchcock/Truffaut – con la sua polifonia di voci d’artista che s’aggiungono a quelle dei due maestri – rappresenta un amorevole e precisissimo commentario a quel libro imprescindibile.