Ho ripreso a non dormire quasi niente. Sto lì a rigirarmi nel letto, incapace a prendere sonno, seppur stanco da non riuscire quasi a alzarmi. E sono lì a non prendere sonno ma in balia dei miei mostri. Funziona sempre così, di notte. Tutto sembra irrisolvibile, e questo non è sicuramente un periodo che ci spinge all’ottimismo di giorno, figuriamoci di notte. O tutto ci sembra comunque scontornato, come se fosse impossibile affrontare i pensieri con gli strumenti della razionalità. Così si finisce in una sorta di loop infernale, non si dorme perché si è in qualche modo angosciati da quel che ci succede, a noi come genere umano ma anche a me personalmente, nello specifico, e siccome si è svegli quel che succede prende ancora più l’aspetto mostruoso di qualcosa di irrisolvibile, definitivo. La mattina, quindi, quando suona la sveglia, da noi alle sei e quaranta, ti alzi che sei come uno straccio, il sonno che non hai fatto diventa un macigno difficile da spostare in giro per casa, che è poi la porzione di mondo nella quale ci si muove quasi tutto il giorno. Per questo, per questo annichilente senso di angoscia, mangio anche poco. Il che potrebbe pure essere l’unico aspetto positivo di questa faccenda, io che da anni combatto una battaglia persa in partenza con i chili di troppo. Ma non mangiare perché si ha lo stomaco chiuso non è qualcosa di ascrivibile a un vivere sano, converrete con me, star lì a rigirare il pranzo o la cena nel piatto diventa un ennesimo momento di angoscia.
Certo, avendo quattro figli devo dissimulare, tenendo tutto questo per me, per me e voi, adesso, ma è davvero un periodo oscuro, e questo dicembre, mese che in genere vivevo con quell’attesa carica di aspettative per i bei giorni che avrei passato nella mia Ancona, coi miei cari, miei cari che vedo in genere solo durante le feste di Natale e d’estate, i miei cari e i miei amici, questo dicembre sta sempre più assomigliando a un pozzo nero, l’idea della lontananza coatta che toglie il fiato, l’idea degli anni che scorrono e non torneranno più che in qualche modo ti si inchioda alla testa, la paura degli anni che non torneranno più che si fa sentire come mai si erano fatti sentire prima, non tanto la percezione precisa di invecchiare, quanto di invecchiare inesorabilmente.
So di aver scritto una intro che, tirando in ballo angoscia e mostri, rasenta l’istigazione al suicidio, ma un diario è un diario, non sta scritto da nessuna parte che io mi debba scervellare ogni giorno per trovare le parole giuste per parlare dell’oggi, quelle che io ritengo giusto, è chiaro, tenendo sempre la musica lì, da qualche parte, e poi non possa ogni tanto lasciare socchiusa la porta dei miei tormenti. Troppo facile, altrimenti.
In tutto questo, infatti, rimane la presenza costante della scrittura, e anche dei miei studi. Chiuso in casa, come molti, ne approfitto per riordinare i miei scritti, magari per tirarne fuori qualcosa di più organico e organizzato.
Torno quindi a parlarvi di femminile, provando a indicare, Deo gratia, una angolatura differente, per me inedita.
Il punto di partenza è raccontare la musica al femminile e raccontare il corpo della donna nella musica al femminile, per entrare nello specifico. Raccontare, quindi, qualcosa di diverso da sé, di diverso da me. Non credo sia necessario fare esempi, è evidente che lo si può fare. Da Salgari che ha raccontato terre esotiche che non ha mai visto ai tanti che hanno scritto di futuri immaginari o di passati lontanissimi, per non dire di quelli che hanno dato voce a personaggi lontani per questioni di genere, razza, status sociale. Qui però il discorso è un pochino meno semplice di quanto non possa sembrare, sempre che scrivere romanzi e racconti lo sia.
Qui non si tratta tanto di capire se è possibile raccontare, quanto se lo sia comprendere, immedesimarsi, spostare davvero un punto di vista. Un attore è in grado di immedesimarsi in un personaggio, specie se è un bravo attore, magari usando dei metodi, penso allo Stanislavskij, o più semplicemente ricorrendo al proprio talento, uno scrittore, in genere, ricorre alla propria lingua, alla propria più o meno lucida visione del mondo. Torniamo a quella specie di trance di cui parlavo prima, quella che ho provato a usare per capire e quindi raccontare il mondo dei trans, che gioco di parole imbarazzante, scusatemi. Non è mica un segreto che buona parte delle più belle canzoni cantate da interpreti donne siano state scritte da uomini, da Fossati a Ruggeri l’elenco è lungo, ma ancora non siamo vicini a quel che volevo dire. Per quanto, infatti, sia possibile provare a fare propri i sentimenti di qualcun altro, diverso è provare a sentirne il corpo, viverlo, farlo proprio e quindi esprimerlo.
Temo, parlo per me, che la sola fantasia e il solo talento non basti. E che non basti indagare per conoscere. Seppur c’è chi ci ha decisamente provato.
Ho in mente due opere, uscite, più o meno ufficialmente, in epoca diverse.
Una è l’album Camille, eponimo, l’altro è il Book of Dolores di William T. Vollman. Il primo prodotto nel 1986 e mai ufficialmente uscito, almeno in quella forma, il secondo iniziato nel 2008 e dato alle stampe nel 2013.
Camille, quindi. Dietro questo nome comune di donna si nasconde, neanche troppo, Prince. Lui ha scritto, prodotto e interamente suonato l’album che avrebbe dovuto vedere la luce subito dopo il film Under a Cherry moon e l’album Parade, per intendersi quello di Kiss. Ecco, partiamo proprio da quella che, con buona probabilità, è la hit più nota dell’artista di Minneapolis, Kiss. Si tratta di un classico funkettone, molto molto ben scritto. Ma si tratta anche di una canzone che, giocando su un canone consolidato, pratica un rovesciamento di ruoli senza precedenti. O meglio, con precedenti proprio insiti alla carriera dello stesso Prince, in questa occasione cristallizzati e impacchettati come mai era riuscito prima. Nel brano in questione, infatti, Prince canta la sua canzone d’amore per la sua bella, all’epoca Susannah Melvoin, cantante della band The Family, per la quale Prince aveva scritto quella Nothing Compares to U poi portata al successo mondiale da Sinead O’ Connor, e sorella gemella di Wendy, chitarrista dei Revolution, la band del nostro, nonché parte del duo Wendy and Lisa. Nel cantare la canzone adotta un falsetto particolarmente acuto, che nel finale si fa acutissimo, andando a prendere note che difficilmente una donna riuscirebbe a prendere. Una scelta bizzarra, perché il funky è un genere molto sessualizzato, nel quale l’uomo, si pensi alla Sex Machine di James Brown, ostenta sempre il proprio machismo. Cantare usando un registro femminile è una scelta di campo. Scelta che trova più che una conferma nel video di accompagnamento, si potrebbe parlare addirittura di accelerazione. Prince è infatti intento a ballare in maniera particolarmente sensuale, non certo ostentando una gestualità particolarmente mascolina, mentre è proprio Wendy, che lo accompagna alla chitarra suonando il famosissimo riff a incarnare il macho di turno. Era già capitato in Purple Rain, quando nel finale del film, quando cioè il protagonista ammette proprio nei confronti della propria band le sue colpe egotiche andando a eseguire la canzone che dà il titolo al film, nella finzione scritta proprio da Wendy, anche lì, lei coi lineamenti forti, lui più delicato, ruoli che si invertono giocando su una ambiguità che caratterizzerà buona parte della produzione anni Ottanta del nostro, geniale anche nel gestire la propria estetica oltre che nello scrivere e suonare musica. Quindi c’è Prince che canta un funky dedicato alla sua donna come fosse una donna, la gemella della donna di Prince che interpreta l’uomo, il volto coperto a stento da un velo. Kiss e Parade sanciranno la fine di un’epoca, per Prince. Di lì a poco, infatti, il nostro scioglierà la sua band storica, i Revolution, manderà a puttane le registrazioni ormai terminate del suo album rimasto ancora inedito Dream Factory, buona parte dei brani confluiranno in Sign ‘O the Times, penso a The Ballad of Dorothy Parker o Starfish and Coffee, con gli ultimi inediti usciti proprio recentemente nella riedizione deluxe di quello che molti considerano il più bell’album di tutti e tempi, e si chiuderà in studio da solo per registrare Camille. Nel mentre lascerà anche Susannah Melvoin, tanto per non far sì che quello che poteva essere un taglio netto risultasse parziale.
Camille, nella testa di Prince, era il suo alter ego femminile. Camille, pensano alcuni studiosi, sia un nome non casuale, quanto un omaggio a Herculin Barbin, pseudo ermafrodito cui, per un errore giudiziario, è stato dato nome maschile nonostante fosse stato registrato come femmina alla nascita, e che adotterà proprio il nome Camille. La sua storia, raccontata anche nel film Le Myster Alexina di Réne Féret, del 1985, è diventata piuttosto nota in quanto esemplare per gli studi di genere, oggetto di approfondimenti da parte di Michael Foucault che contribuì a rendere pubblico il suo memoriale scritto poco prima di suicidarsi. Già nei suoi primi lavori, il nostro si era divertito a giocare su una fluidità sessuale all’epoca considerata piuttosto eversiva, provocando scandali e censure. Aveva giocato anche su quello che è stato il tema centrale dell’opera della stessa Kathy Acker, l’incesto, penso al brano Sister, ma più in generale non si era fatto mancare nulla del panorama ottico della sessualità, dalla masturbazione raccontata in Darlin’ Nikki e Jack U Off, all’esibizionismo di Dirty Mind, dall’esaltazione del sesso orale di Head al vouyerismo di Alphabet Street, sapendo di andare a urticare anche i meno sensibili. Del resto proprio in quegli anni era solito vestirsi indossando lingerie femminile, scarpe col tacco alto, truccato di tutto punto, giocando su una bisessualità che non ha poi mai trovato riscontro nella sua biografia. Anche quello potrebbe essere qualcosa di pensato per scandalizzare, non fosse che la fluidità sessuale è sempre stata per lui centrale, quasi un’ossessione, non a caso nel momento in cui romperà con la Warner, andando a scegliere un nome quasi impronunciabile come TAFKAP, The Artist Formerly Known As Prince, sarà un simbolo che mischia i due simboli maschile e femminile a rappresentarlo, simbolo che nel 1992 sarà anche quello scelto per un album, chiamato genericamente Love Symbol Album, con buona pace di chi, come me, dovrà scriverne. Del resto già nella colonna sonora di Purple rain aveva detto molto, quando in I Would Die 4 U cantava liriche chiare come queste: “I’m not a woman/ I’m not a man/ I’m something that you’ll never understand”. Che quindi nel momento di rottura con tutto quello che lo ha portato al successo Prince decide di dar vita a un alter ego femminile, Camille, nessuno si sorprende più di tanto. Lo abbiamo già visto vestito da donna, lo abbiamo sentito cantare in falsetto, lo conosciamo. Quello che però Prince ha in mente è di andare oltre, provando davvero a immedesimarsi in una donna. Così escogita un modo di cantare che, diciamolo apertamente, seppur ciò possa essere oggi considerato un punto a sfavore, anticipa di qualche anno l’invenzione dell’autotune. Manipolando infatti la voce Prince riesce davvero a cantare su registri inediti, femminili, andando poi a comporre canzoni nelle quali la fluidità di cui sopra è esplicitata con un punto di vista femminile mai così evidente in precedenza. Camille è davvero una donna, e le sue canzoni sono le canzoni di una donna. Solo che a cantarle è un uomo, eterosessuale. L’album viene chiuso in poche settimane e presentato alla Warner, che però lo boccia. Non ritengono, i testoni della major, che sia abbastanza potente da far mantenere a Prince i numeri giganteschi che ha conquistato negli anni precedenti. Prince è in una sorta di trance creativa, quindi dopo aver cestinato Dream Factory cestina anche Camille, mettendo definitivamente in soffitta l’idea del suo alter ego. Di lì a poco proporrà alla Warner un triplo album dal titolo Crystal Ball, con dentro parte del materiale contenuto in Camille, anche quello bocciato. Il 1987 sarà però l’anno di Sign O’ the Times, con dentro HouseQuake, Strange Relationship, If I Was Your Girlfriend arrivate dritte dritte da quel secondo album abortito. Altre, quali Rebirth of the flesh, finiranno nella versione deluxe uscita nel 2020, mentre Feel Up sarà il lato B di Partyman, Shockadelica il lato di B di If I Was, Good Love, andrà su Crystal Ball, di lì a qualche anno tirato fuori dallo stesso Prince, ormai indipendente, e Rockhard in a Funky Place, sul Black Album, colonna sonora del Batman di Tim Burton.
Tirare in ballo il dualismo Batman/Joker presente in quel lavoro, non solo nel film, parlo proprio dell’album, sarebbe semplicemente un confermare questa ossessione per lo sconfinamento nei generi, ma è soprattutto nel brano If I Was Your Girlfriend che Prince prova e riesce a immedesimarsi in tutto e per tutto in una donna, andando oltre la sfera dei sentimenti e incarnandone le fattezze, facendosi corpo. Una canzone nella quale la volontà di scandalizzare è tenuta da parte, senza ambiguità, compiuta.
Come compiuta, seppur a grande rischio di scivolare nel bizzarro, se non addirittura nel freak, è l’opera di William T. Vollmann dal titolo The Book of Dolores. Uno dei tanti bellissimi libri di uno degli autori più interessanti usciti nel volgere del Novecento in America, ex tecnico dei computer che nulla sapeva di informatica uscito da quella covata di nomi eccellenti che vede al suo fianco Franzen e soprattutto David Foster Wallace, come lui intento a lungo, almeno finché col suicidio non si leverà di mezzo, a superare il postmodernismo, seppur partendo da una angolatura assai distante dalla sua. Perché Vollmann ha stabilito un canone, tutto suo, che lo vuole a vivere tutte le esperienze, anche le più estreme, lui che quasi sempre scrive di esperienze ai limiti e ai margini, sulla propria martoriata pelle. Una sorta di rovesciamento della massima hemingwayana che vuole lo scrittore a scrivere solo di cose che conosce, lui a andare a conoscere le cose che vuole raccontare, facendo di se stesso, il se stesso autore, il protagonista dei suoi libri, e non viceversa.
A vederlo così, quindi, Vollmann è oggettivamente un pazzo furioso, un avventuriero, ma è anche indubbiamente lo scrittore che più di ogni altro ha creduto che la letteratura fosse, lo è, lo strumento migliore di indagine sul mondo. Lo ha fatto in tutti i modi possibili, andando al fronte in Afghanistan per poter parlare di guerra, girando il mondo intervistando a pagamento i poveri per interrogarli suo cosa sia la povertà, facendosi di eroina e crack per raccontare le tossicodipendenze, vivendo in un tugurio al Tenderloin per raccontare gli emarginati, morendo quasi di freddo, gli elicotteri giunti all’ultimo a salvarli in una ex base scientifica del Polo Nord per raccontare le sue storie di conquista ne I Fucili, e tante tante altre volte, sempre andando a vivere quel che voleva raccontare, mai il contrario. Normale, quindi, normale stando ai suoi canoni, che per scrivere un libro su una donna Vollmann abbia per un lasso di tempo lungo quasi cinque anni passato alcune giornate vestendosi da donna, imparando a camminare sui tacchi, a truccarsi, a scegliere con cura un tipo di abbigliamento assai distante con quello sportivo, in stile cacciatore, il berretto calato sulla testa, con il quale siamo abituati a vederlo nelle foto promozionali, il berretto e è il suo tratto distintivo, abbinato agli occhiali sulla faccia butterata, tanto quanto la bandana lo era per Foster Wallace. Una esperienza come sempre totalizzante, anche se diluita nel tempo, cioè non concentrata in un periodo circoscritto come invece era avvenuto per altri libri. In realtà le sue prime esperienze di travestimento, perché inizialmente di questo si tratta, partono già alla fine degli anni Ottanta, mentre a San Francisco sta scrivendo i tomi racchiusi sotto il titolo Seven Dreams. Dovendo raccontare di un personaggio che si trasforma in donna, Vollmann, prova a indossare abiti femminili, testando su se stesso quel tipo di esperienza, almeno da un punto di vista estetico. Con The Book of Dolores la cosa diventerà più centrale, provando a muoversi nella società come donna, andando quindi a tastare con propria mano la paura a uscire di notte, sentendo su di sé, la Dolores cui darà vita sarà nella sua mente una donna più giovane di lui, intrappolata in un corpo di uomo grasso e più vecchio. Nei fatti, a differenza di quanto ha provato a fare Prince, Vollmann è riuscito a crearsi un alter ego che è però non contiguo o parallelo al suo, ma inglobato in lui stesso. Resta comunque una operazione assai interessante, che più che sul corpo si concentra sulla pelle, sulla percezione dell’involucro che copre una donna, e di come quell’involucro venga percepito dagli altri.
Stanotte, mentre state per addormentarvi, provate a pensare a me, insonne, che mi rigiro nel letto pensando a Camille e Dolores, mi sa che faticherete anche voi a prendere sonno.