Fabrizio Gifuni è “La Belva” nell’anonimo action movie ora su Netflix

Dal 29 novembre sulla piattaforma c’è il film di Ludovico di Martino. Produce Matteo Rovere, uno dei protagonisti del ritorno del cinema di genere in Italia. Ma stavolta la ciambella non riesce col buco

La Belva

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Una tra le novità più significative del cinema italiano degli ultimi anni è certamente il ritorno ai generi. Attraverso la riscoperta di modelli un tempo popolari come il poliziottesco o il thriller. E mediante l’impiego di dispositivi storicamente poco presenti nel nostro paese (penso al film automobilistico), oppure tramite l’importazione e riadattamento di generi e stili espressivi quasi sempre statunitensi, primo fra tutti il filone supereroistico.

L’elenco ormai di film di genere all’italiana è lungo, basti citare i capi d’opera di questo processo. Ovviamente Lo Chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, che ha reso palese cosa stesse succedendo, grazie anche alla vittoria di diversi David di Donatello. Esemplare poi la parabola ventennale dei Manetti Bros., passati dall’essere considerati dei bizzarri cultori di generi misconosciuti alla partecipazione in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, con quella intelligente operazione di ibridazione tra poliziottesco, sceneggiata, musical che è Ammore E Malavita.

Il terzo nome che va fatto è Matteo Rovere, prossimo ai quarant’anni e con un curriculum nutritissimo. Da un lato è un regista di film che lambiscono generi inusuali, suo infatti l’automobilistico Veloce Come Il Vento e quella smisurata operazione che è Il Primo Re, che reinventa il film storico trasformandolo in un genere barbarico e a suo modo sperimentale (da lì è germinata pure la serie tv Sky, Romulus). Dall’altro, è un produttore attivissimo con la sua Groenlandia, dietro la trilogia Smetto Quando Voglio di Sydney Sibilia (quando Breaking Bad incontra un’armata Brancaleone di soliti ignoti) o Il Campione di Leonardo D’Agostini (un film sul calcio credibile, novità assoluta sui nostri lidi).

Ai tanti generi toccati da Rovere adesso s’aggiunge l’action de La Belva, da lui prodotto con Groenlandia, regia di Ludovico di Martino (ha diretto la terza stagione di Skam Italia) e coproduzione Warner Italia, dal 29 novembre su Netflix, con al centro un classico vendicatore inarrestabile da revenge movie.

Protagonista l’ex capitano delle forze speciali Leonida Riva (Fabrizio Gifuni), reduce di tutte le guerre (Somalia, Iraq, Bosnia, Ruanda, Afghanistan e chi più ne ha più ne metta), traumatizzato dalle torture, pesantemente dipendente dagli psicofarmaci. Il suo tentativo di riavvicinarsi alla famiglia da cui è separato si trasforma immediatamente in tragedia, perché la figlia più piccola viene misteriosamente rapita. A quel punto, sebbene la polizia si occupi del caso (il vicequestore interpretato da Lino Musella), la belva che è in Riva torna a scatenarsi. E lui, in solitudine, si mette sulle tracce dei colpevoli, scoperchiando un sottobosco equivoco. Sarà una carneficina.

La Belva è più o meno tutto qui, nella ripetizione pedissequa del modello di partenza, che già di suo non brilla per sottigliezze (l’esemplare più vicino è Io Vi Troverò con Liam Neeson, ma i titoli sono innumerevoli, da Ransom con Mel Gibson fino, tornando indietro agli anni Ottanta, all’amorevole papà ammazzatutti Schwarzenegger di Commando). Manca completamente uno sforzo di adattamento al contesto, per rendere caratteri, psicologie, dinamiche congruenti con la collocazione italiana della vicenda.

Lo stesso protagonista, la Belva, è poco più d’una figurina, nonostante un attore di notevole livello come Fabrizio Gifuni faccia il possibile per dotarlo di qualche sfumatura espressiva e tormenti verosimili. E ancora più scheletrici sono i personaggi di contorno. Si ascoltano frasi come “Manderà tutto a puttane. Quest’uomo va fermato” (il vicequestore Musella), o “L’ho odiato anche se non ho mai smesso di amarlo” (l’ex moglie interpretata da Monica Piseddu). Per il resto il film è una sequela di situazioni viste mille volte: stalli alla messicana in cui tutti tirano fuori le pistole, la belva che si aggira in una rumorosa discoteca inseguendo un fuggitivo, immancabili pervertiti russi, scene nei grattacieli che fanno tanto action, e così via.

Gli accenti di alcuni personaggi secondari sembrano rimandare al Nordest, ma l’ambiente resta poco più di un anonimo fondale, in una storia dagli sviluppi prevedibilissimi. Nella quale manca oltretutto un ingrediente indispensabile, un cattivo degno di questo nome. La Belva dimostra che non basta prendere un genere d’oltreoceano per ricavarne un buon film. Se non si pratica l’innesto con le dovute cautele, riadattando il racconto al mondo e alla cultura in cui lo si vuole situare, il fenomeno del rigetto è quasi certo.