Carlo Verdone compie settant’anni, nel suo cinema c’è la storia degli italiani

Un compleanno importante per l’attore e regista romano, una carriera irripetibile tra cabaret, tv e cinema. Ha diretto e interpretato 27 film in cui ha raccontato donne e uomini, padri e figli di questo paese, con uno sguardo agrodolce che è solo suo

Carlo Verdone

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Oggi Carlo Verdone compie settant’anni. Nato il 17 novembre del 1950, ovviamente a Roma, forse avrebbe voluto festeggiare la ricorrenza con l’uscita di Si Vive Una Volta Sola, il suo ventisettesimo film da regista, che sarebbe dovuto uscire prima a febbraio e poi il 26 novembre, due volte rimandato per colpa della pandemia. Nonostante questa piccola amarezza, il compleanno segna una tappa importante, che almeno anagraficamente corrisponde al passaggio dalla maturità alla “vecchiaia”. Parola questa che si fatica a pronunciare a proposito di Verdone, vista la sua inesausta vitalità – sono già annunciate in cantiere le dieci puntate di Vita Da Carlo per Amazon – in una carriera dai contorni irripetibili.

È probabilmente vero quel che afferma l’attore e regista, secondo il quale non esiste un erede diretto della sua comicità. Proprio questa unicità però fa assumere alla sua parabola artistica un valore quasi paradigmatico, per il modo in cui Carlo Verdone è riuscito a farsi ponte di raccordo tra un’Italia e l’altra, ricapitolando nella sua vicenda cinquant’anni di storia del paese e dello spettacolo italiano. In cui si tengono insieme il teatro di cabaret con la televisione e il cinema, la commedia all’italiana dei padri che ha conosciuto (a partire da Alberto Sordi) con quella contemporanea che lui stesso ha contribuito a edificare.

Le tavole del palcoscenico sono state il punto di partenza, con uno spettacolo che si chiamava Tali E Quali all’Alberichino nel 1977, che costituì l’origine della sua fortuna, perché venne a vederlo, unico spettatore!, l’allora critico di Paese Sera Franco Cordelli. Il quale il giorno dopo titolò la sua recensione “È nato un nuovo Fregoli”, cosa che lo fece notare da Enzo Trapani che lo volle in Non Stop, la trasmissione televisiva che lanciò una nidiata di nuovi comici destinata a grandissimo successo, con la Smorfia di Massimo Troisi e i Gatti di Vicolo Miracoli.

Il vero palcoscenico da cui parte la sua comicità, però, è la città. Quella Roma di facce, voci, intercalari della gente comune di cui il giovane Carlo Verdone si nutre, ricreandoli in una chiave imitativa di affettuosa deformazione grottesca, secondo un modello di osservazione della realtà che è lo stesso dei grandi comici delle generazioni precedenti, i Totò, Sordi, Aldo Fabrizi – di quest’ultimo proverbiale l’intercalare Ciavéte fatto caso con cui spesso cominciava le sue storielle umoristiche di tramvieri, vetturini o camerieri prese di peso dalla vita vera.

Lo sketch dell’astrologa in Non Stop

A questo apprendistato “di strada”, che comprende anche a vent’anni l’Opera dei Burattini di Maria Signorelli, una palestra eccezionale – impensabile nel curriculum di un attore di oggi – in cui si esercita a dar voce ai pupazzi, Carlo aggiunge la formazione “canonica”, lui figlio di Mario, docente universitario di Storia del Cinema e amico persino di Roberto Rossellini, che quando vede i primi corti amatoriali del giovanissimo Verdone gli suggerisce di iscriversi al Centro Sperimentale di Cinematografia, che lui segue contemporaneamente alla facoltà di Lettere Moderne, dove si laurea con una tesi sul rapporto tra letteratura e cinema muto.

Insomma è già in questo percorso composito che tiene insieme alto e basso che si costruisce la figura eterodossa e per questo sì irripetibile di Carlo Verdone, che unisce il colto del teatro delle cantine romane degli anni Settanta con il popolare della sua istintiva propensione monellesca all’imitazione, che gli deriva anche da un amore, ampiamente ricambiato, per Roma. Amore che può subito esprimere, dopo il successo televisivo, nel suo primo film, Un Sacco Bello (1980), nel quale riesce a fotografare appena in tempo una città sul punto di svanire: “Non c’è più nulla di quella poesia estiva – ha dichiarato in un’intervista al vecchio amico Enrico Vanzina –, in quella Roma deserta dove ancora ascoltavi l’acqua delle fontane, le campane, le cicale e qualche motorino smarmittato. E questo perché l’apparato umano di quegli anni se n’è andato insieme ad una cultura di quartiere”.

Un Sacco Bello segna il passaggio al cinema, anche qui per vie tutt’altro che ordinarie, visto che il suo produttore è Sergio Leone. Il quale scommette pure sul Verdone autore, tenendogli un corso accelerato di regia – altro colpo di fortuna – e mettendogli accanto due sceneggiatori di lungo corso come Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, coi quali collaborerà a lungo, che imbastiscono una struttura che cuce insieme gli episodi del mammone Leo, il figlio dei fiori Ruggero, il mitomane Enzo. Leone coinvolge nell’operazione persino Ennio Morricone. Il neanche trentenne Verdone parte insomma dalla cima e, soprattutto, si pone in un filo diretto con il cinema italiano della generazione che l’ha preceduto, un’esperienza che ne segna l’unicità rispetto agli altri comici che esordiscono nello stesso giro d’anni, i Troisi, Benigni, Nuti, Nichetti.

La parabola del cinema di Carlo Verdone è in gran parte compresa in questa dialettica tra vecchia e nuova generazione, tra padri e figli. Rispetto alla generazione dei padri, reali e putativi, ha sentito sempre un profondo senso di gratitudine, consapevole e orgoglioso di muoversi nell’alveo di una gloriosa tradizione da cui però tende a distinguersi, interpretandola costantemente a modo suo, nello sforzo di costruirsi una propria voce – è la ragione per cui, pur amando immensamente Alberto Sordi, con cui ha lavorato in due film, In Viaggio Con Papà (1982) e Troppo Forte (1986), ha sempre negato di rappresentarne l’erede.

Della nuova generazione è invece stato uno dei protagonisti principali. Riuscendo, sia per la durata della sua carriera che per una naturale propensione, ad emanciparsi progressivamente dal ruolo di figlio che ha inizialmente incarnato, crescendo e trasformandosi in un adulto, e quindi a sua volta marito, compagno, padre. Anche in virtù di questo ventaglio di personaggi così variegato, la filmografia di Verdone lungo quattro decenni riesce a ricapitolare se non proprio la storia della nazione, che resta con discrezione sullo sfondo, sicuramente almeno gli effetti che quella storia ha avuto su identità e atteggiamenti degli italiani, comprese le ultimissime generazioni (con cui spesso si confronta mettendosi in discussione, pensiamo a Il Mio Miglior Nemico, 2006, accanto a Silvio Muccino) e, in particolare, le donne.

Le donne hanno un ruolo paritario nel suo cinema. Già il suo terzo film, Borotalco (1982), sceneggiato insieme a Enrico Oldoini, presenta un ruolo di donna rilevante, All’interno d’una narrazione meno frammentaria, proprio l’interazione con la Nadia di Eleonora Giorgi permette a Verdone di disegnare un protagonista maschile, Sergio, che oltrepassa il tipo fisso del mitomane sognatore e si proietta verso la definizione di un carattere a tutto tondo. La schermaglia tra i sessi perciò gli consente da un lato di sviluppare ulteriori spunti comici e di costume, dall’altro di delineare personaggi via via più realistici e calati nel proprio tempo.

Fondamentale nell’esplorazione dell’universo femminile sarà la collaborazione con la sceneggiatrice Francesca Marciano, da Maledetto Il Giorno Che Ti Ho Incontrato (1992, con Margherita Buy) e Perdiamoci Di Vista (1994, con Asia Argento) in poi. Quello di Carlo Verdone quindi è un cinema al femminile, decisamente lontano in questo dalla commedia all’italiana maschile e maschilista degli anni Sessanta, nella quale gli unici capaci di parlare di donne erano Antonio Pietrangeli ed Ettore Scola.

Il Verdone autore, questo uno dei suoi maggiori meriti, ha saputo piegare la naturale versatilità del Verdone attore – i primi one man show di Un Sacco Bello e Bianco, Rosso E Verdone (1981) – alle esigenze di un cineasta che, pur tra alti e bassi, ha sempre voluto raccontare un mondo e non puntare ripetitivamente la macchina da presa su sé stesso. Per questo, come tante volte ha ribadito, ha amato particolarmente i film corali. Su tutti quello solitamente ritenuto il suo capolavoro, il molto agro e poco dolce Compagni Di Scuola (1988), ritratto miserabile e disilluso della generazione diventata adulta negli anni Ottanta, in cui lo stesso personaggio interpretato da Verdone ne esce con le ossa rotte. Questo vale anche per un film pieno di malumori e apparentemente ripiegato su di un solo personaggio come Gallo Cedrone (1998). In cui a ben vedere il ritratto di un tipo paradossale è il filtro attraverso cui passano intuizioni che illuminano un ambiente umano e un’epoca – il finale in cui Armando Feroci imbocca la via della politica populista e propone d’asfaltare il Tevere è paradigmatico (“se score!”).

Il finale di Gallo Cedrone

Sempre a Enrico Vanzina, Carlo Verdone ha detto che “il nostro compito è osservare il cambiamento e cercare ugualmente di descriverlo o decifrarlo”. Ed è questo lo sforzo che lui ha quasi sempre cercato di perseguire. Anche uscendo fuori dalla gabbia su misura della romanità, con storie che possono arrivare in Ungheria (Io E Mia Sorella, 1987), la Cornovaglia (ancora Maledetto Il Giorno Che T’Ho Incontrato), la sfida d’una commedia ambientata nel plumbeo Belgio (Sono Pazzo Di Iris Blond, 1996), la tentazione del road movie (Al Lupo, Al Lupo, 1992, tutto sul tema tipicamente verdoniano della famiglia).

Nei mutamenti fisici dell’età matura ha trovato la chiave per rimodulare lo stile del Verdone attore, che cambia lungo i decenni: rendendo sempre più scoperta la malinconia del personaggio e il retrogusto amaro delle storie, con talvolta accenti rinfrancanti di autentica cattiveria (importante in tal senso l’inizio dalla fine degli anni Novanta della lunga collaborazione con lo sceneggiatore Pasquale Plastino). Cupissima per esempio è la chiusa di uno dei suoi lavori meno amati e più ispirati, C’Era Un Cinese In Coma (2000), in cui l’impresario Ercole Preziosi picchia selvaggiamente il suo volgare, squallido artista di punta Niki Renda (Beppe Fiorello) e poi, sguardo in macchina, racconta la barzelletta del cinese che lo spettatore ha atteso per tutto il film, in un finale enigmatico dal sapore terminale.

Il finale di C’Era un Cinese In Coma, l’epitome della solitudine

Questa lucida durezza non sempre Verdone l’ha trovata, annacquando più d’una volta premesse promettenti in finali accomodanti, che un po’ sono in linea col suo carattere che tende alla conciliazione, un po’ sicuramente derivano dall’idea addomesticata di commedia che hanno produttori che non amano il rischio (i Cecchi Gori prima, Aurelio De Laurentiis poi). Ciò non toglie che il suo cinema possegga un’anima seria, che quando compiutamente espressa dà maggiore forza alla vena comica, divertente senza essere superficiale. E va dato atto a Paolo Sorrentino ne La Grande Bellezza (2013), in una delle non numerose sortite di Verdone solo come interprete, di aver messo in luce quanto drammatica sia al fondo la maschera dell’attore, in un ruolo d’artista velleitario che sembra essere un aggiornamento del Moraldo de I Vitelloni felliniano, passato attraverso una cura di decenni di bocconi amari ingoiati nella Città Eterna.

Anche per questo, ciclicamente, decennio dopo decennio, Carlo Verdone torna al fregolismo della struttura a episodi, in Viaggi Di Nozze (1995) e Grande, Grosso E Verdone (2008). Da un lato per ritrovare la certezza tranquillizzante della maschera, dall’altro per, attraverso di essa, misurare la portata dei cambiamenti dettati dai nuovi tempi (forieri di nulla di buono, a vedere in entrambi i film la vuotezza delle coppie coatte interpretate da Verdone e Claudia Gerini).

Viaggi di nozze: ‘O famo strano, a 220 all’ora

Al centro delle opere degli ultimi dieci anni sono invece uomini obbligati a fare i conti con fallimenti umani e professionali (Posti In Piedi In Paradiso, 2012; L’Abbiamo Fatta Grossa, 2016) o con una realtà che non capiscono più (il prete di Io, Loro E Lara, 2014). Su di loro Verdone getta uno sguardo empatico che non giudica e non commisera, portatore di una comprensione che resta una delle cifre determinanti del suo cinema. Insieme a un certo e forse velleitario ottimismo, che lo spinge a dipingere con simpatia le prossime generazioni che auspica migliori della sua.

Attraverso oltre quarant’anni di carriera Carlo Verdone ha saputo costruirsi con umiltà un’identità autoriale, senza prevaricare le qualità dell’attore comico, semmai prendendo quella capacità minuta di plasmare in tipi e gag i tic del quotidiano e mettendola al servizio di un narratore desideroso di raccontare le storie (non La Storia) del suo paese. Anche per questo, pur rimanendo a debita distanza dal modello sordiano, non è improprio dire che pure nel suo caso i film che ha realizzato messi insieme compongano una storia di un italiano. Meglio, una storia degli italiani.