Il Texano Dagli Occhi Di Ghiaccio (The Outlaw Josey Wales, 1976) è il secondo dei quattro western diretti da Clint Eastwood (cinque se si considera anche lo spurio Bronco Billy). Un numero tutto sommato esiguo di titoli se confrontato al suo intero corpus registico, che conta ormai più di quaranta film. Eppure il western resta la matrice di tutto il suo cinema. Non tanto perché, ovviamente, si tratti del genere che gli ha dato la fama a partire dal clamoroso successo della trilogia del dollaro di Sergio Leone, o perché sia stato proprio un western, Gli Spietati, a laurearlo finalmente grande autore agli occhi dell’opinione pubblica e degli addetti ai lavori, grazie al trionfo agli Oscar del 1993.
Nel western, infatti, Clint Eastwood trova il punto di partenza ideale nella costruzione del suo personaggio e le tematiche fondamentali che attraversano gran parte della sua filmografia. Che ruota intorno alla definizione di un carattere di americano di nuovo stampo: il quale reca ancora con sé il tesoro di valori dell’uomo della frontiera, la saldezza virile, la fede in una morale, il senso della comunità, ma è costretto a rendersi conto del fatto che, in un paese profondamente mutato, al centro del quale campeggiano la vita nelle metropoli, l’individualismo e il carrierismo di una società capitalista, quei principi sono diventati anacronistici.
E dunque, il tipo di uomo americano incarnato da Eastwood deve continuamente negoziare un diverso modo di stare al mondo, segnato dalla disillusione verso le istituzioni, l’insofferenza verso norme cui non riconosce legittimità (per questo l’ispettore Callaghan è un poliziotto riottoso alle regole), la nostalgia verso un’epoca migliore e inattingibile (che la chiarezza del mondo rude ma senza ipocrisie del west simboleggia) e una pericolosa tendenza all’autoesclusione dal consesso civile (pensiamo al finale di Million Dollar Baby), che testimonia sotto la scorza inscalfibile l’intima fragilità di un personaggio che vive in uno spazio e un tempo che non riconosce più suoi.
Questa dicotomia era già visibile alle origini, in maniera quasi didascalica, in un film non suo ma diretto dal sodale Don Siegel, L’Uomo dalla Cravatta Di Cuoio (1968), un western metropolitano in cui interpretava uno sceriffo dell’Arizona costretto ad andare a New York per l’estradizione di un detenuto, misurando lì tutta la sua estraneità al contesto e alle regole della grande città. E la stessa dinamica è alla base de Il Texano Dagli Occhi Di Ghiaccio.
Il protagonista è il “fuorilegge” Josey Wales, che oltretutto, contrariamente al titolo italiano, non è texano ma del Missouri. Un tranquillo agricoltore cui, negli anni della Guerra Civile americana, vengono massacrati moglie e figlio da un gruppo di irregolari nordisti. La sua sete di vendetta lo spinge ad abbracciare la guerriglia accanto ai sudisti, fino a quando la fine del conflitto non lo pone di fronte al dilemma se arrendersi o meno. Wales non si fida e si dà alla macchia. Come tale viene considerato un pericolo pubblico, e sulla sua testa viene spiccata una taglia consistente, che lo rende il bersaglio di bounty killer e tutori dell’ordine della nuova America, i quali guarda caso sono gli stessi criminali che gli hanno sterminato la famiglia (a sottolineare l’inaffidabilità delle istituzioni).
Al centro de Il Texano Dagli Occhi Di Ghiaccio campeggia ancora il vendicatore laconico e indistruttibile da western leoniano, capace di uccidere da solo decine di uomini. Ma a parte questo, l’impostazione del film è molto diversa, perché a partire dalla sceneggiatura di Sonia Chernus e Philip Kaufman (che inizialmente avrebbe dovuto anche dirigerlo), il regista Eastwood costruisce un racconto picaresco che attraversa molti Stati del paese, affollatissimo di personaggi, attraverso i quali costruisce un affresco composito e problematico della contraddittoria realtà americana.
Il solitario Josey Wales, introverso e individualista, diventa quasi controvoglia il padre putativo di una comunità di esclusi che incontra lungo il suo cammino. Prima un ragazzo sudista che decide come lui di ribellarsi, lasciandoci la vita. Poi, uno dopo l’altro, un enigmatico capo indiano decaduto (l’impagabile Chief Dan George), una squaw senza famiglia (Geraldine Keams), un’anziana donna che insieme alla figlia (Sondra Locke, all’epoca compagna di Eastwood) ha intrapreso un lungo viaggio nella speranza di trovare nel Texas la sua El Dorado. Tutt’intorno a questa improvvisata comunità si agita però un paese che solo a parole ha trovato la pacificazione, nel quale le ferite e gli strascichi della guerra segnano una nazione unita a forza ma in realtà profondamente divisa.
Un’America, e la caccia a Josey Wales ne è la prova, in cui non è la legge ma la violenza a farla da padrone. Non a caso, l’unica comunità con cui Wales riesce a comprendersi è quella dei nativi americani, con i quali si confronta in una lingua senza doppiezze, antica e fiera (l’incontro col capo indiano Orso Bruno è esemplare) che parla di vita e morte, guerra e pace, fiduciosa negli uomini e per nulla nelle istituzioni (“I governi non riescono a coesistere, gli uomini sanno farlo”). È la lingua in cui si esprimono i valori anacronistici dell’America cara a Eastwood, inservibili in quel nuovo mondo che è il paese dopo la Guerra Civile (e allegoricamente gli Stati Uniti contemporanei).
L’America de Il Texano Dagli Occhi Di Ghiaccio è un paese spezzato, diviso in due. Lo è anche visivamente, grazie anche a un grande direttore della fotografia come Bruce Surtees, con il contrasto tra interni spesso quasi illeggibili, sprofondati in un metaforico buio morale, e gli esterni in campo lungo, che posseggono la complessa bellezza del cinema di Anthony Mann e che descrivono uno scenario ricco e movimentato, tra montagne, fiumi e deserti luminosi in cui si misura la grandezza di un paese incomparabile. Un luogo che riescono ad apprezzare e custodire non i governi bensì, esprimendo un inedito afflato di umanesimo utopistico, solo le piccole comunità di emarginati come quella di cui, suo malgrado, Wales si trova ad assumere la leadership.