Qualcuno Deve Morire, perché l’esperimento thriller di Manolo Caro per Netflix è riuscito solo a metà

La recensione del thriller d'epoca del messicano Manolo Caro per Netflix: poche luci e molte ombre per Qualcuno Deve Morire


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Qualcuno Deve Morire, la prima serie drammatica del messicano Manolo Caro per Netflix dopo il successo della commedia La Casa de Las Flores, è un tentativo riuscito solo a metà. Accolta inizialmente con grandi aspettative, soprattutto per il cast considerato un dream team per la tv spagnola, la serie le ha in gran parte deluse per una serie di motivi, pur avendo dei tratti apprezzabili che la collocano a metà strada tra il flop tout court e l’esperimento di successo.

Ad emergere prepotentemente ad una prima visione di Qualcuno Deve Morire è la lentezza del ritmo narrativo, che rischia a più riprese di annoiare sin dai primi minuti del primo episodio. Intendiamoci, non che la lentezza sia di per sé un difetto. Anzi, spesso può essere un pregio, quello di indugiare a lungo sui personaggi, sugli ambienti, sui dettagli. E bisogna ammettere che il grande male della serialità degli ultimi anni è proprio averci abituati ad episodi in cui si succedono talmente tanti colpi di scena da far dimenticare da dove si era partiti. La serialità usa e getta, da divorare solo perché ci tiene incollati alla sedia con giravolte infinite che lasciano ben poco nello spettatore. Ecco, Qualcuno Deve Morire è l’esatto opposto di questa logica narrativa.

La serie di Caro è un lento percorso nel buio della casa dei protagonisti, la residenza di lusso quasi mai baciata dal sole di una famiglia potente della Spagna franchista del Dopoguerra, come se la cupezza del momento storico si riflettesse sulle loro vite senza lasciare spazio a spiragli di luce. La lentezza, dicevamo, potrebbe anche essere un pregio ma quando hai a disposizione solo tre episodi e il primo va via senza aver aggiunto quasi nulla alla storia, questo diventa un problema, perché ti costringe a condensare il tutto nei due capitoli successivi in un crescendo a tratti forzato, che resta comunque più carico di atmosfere che di fatti.

E Qualcuno Deve Morire è tutto un’atmosfera: c’è molta forma e poca sostanza nella trama della storia di Gabino, giovane appartenente a una famiglia potente nelle gerarchie della dittatura di Franco, la cui presunta relazione con un ballerino messicano di danza classica scatena una serie di conflitti drammatici nella Spagna degli anni ’50. L’esasperazione descrittiva di Caro, che indugia sul clima generale della serie più che sul suo intreccio, a tratti fa sembrare la sceneggiatura quasi inconsistente, come se l’impianto della storia fosse pieno di buchi da riempire con lunghi giochi di sguardi, ammiccamenti silenziosi, dialoghi poveri e non sempre necessari.

La serie presenta comunque diversi elementi più che apprezzabili: l’attenzione ai dettagli della regia (non sempre disturbante), l’ambientazione coerente con l’epoca storica, la fotografia perennemente cupa che è una perfetta metafora del tempo, i costumi meravigliosi, la musica di Lucas Vidal che contribuisce a disegnare perfettamente l’atmosfera, le trame che pur lentamente finiscono per intrecciarsi in modo comunque plausibile e funzionale all’economia della storia.

Annunciata come una serie dal cast stellare, però, Qualcuno Deve Morire sembra aver puntato fin troppo sulla recitazione di alcuni dei protagonisti. Anche su questo fronte ci sono luci ed ombre: Cecilia Suárez e Carmen Maura sono le vere star della serie e il loro talento illuminante sembra coprire le mancanze della stessa, mentre i giovani protagonisti hanno ancora troppa strada da fare per essere considerati all’altezza di una produzione simile (Ester Exposito sembra rimasta nello stesso ruolo di Elite, mentre Alejandro Speitzer è incredibilmente acerbo).

La verità è che Manolo Caro – creatore, regista e sceneggiatore della serie – è evidentemente più a suo agio con un genere diverso, in cui può giocare con leggerezza sui vizi, i difetti, i conformismi, i pregiudizi e coi suoi guizzi di satira sociale riuscire a divertire, provocare e dissacrare, mescolare il cabaret e il dramma, far incontrare il mondo LGBT e il conservatorismo più bigotto. Il tentativo di portare queste sue doti (così convincenti ne La Casa de Las Flores) in un registro totalmente opposto non ha funzionato come avrebbe dovuto.

In sintesi, Qualcuno Deve Morire resta al palo delle buone intenzioni, dell’esercizio retorico, del primato dell’estetica sulla narrativa. Il risultato è che la miniserie finisce per assomigliare più ad una soap opera di pregevole fattura (sullo stile de Le Ragazze del Centralino, ma con un registro molto più drammatico e cupo) che al thriller d’epoca che ci saremmo aspettati.