Quando dagli uffici dell’etichetta ascoltarono per la prima volta In Utero dei Nirvana qualcuno batté il pugno sul tavolo: lo definirono “roba”, qualcosa che cozzava tremendamente con quel mondo perfetto che aveva acceso i suoi riflettori sulla band di Nevermind (1991). Una perfezione che tuttavia Kurt Cobain non aveva scelto. Con quel disco, l’ultimo in studio prima del tragico epilogo del 1994, i tre ragazzi di Seattle avevano espresso l’intenzione di ritornare alle origini.
I Nirvana erano partiti con Bleach (1989), avevano conquistato il mainstream con Nevermind e avevano indorato la pillola con quella piccola perla di Incesticide (1992). Erano i fenomeni: Kurt veniva sfiorato dal gossip e quel volto da angelo caduto sul morbido lo aveva portato ad odiarsi. L’odio, infatti, era il tema principale del titolo originale del nuovo disco: “I hate myself and I want to die”, si ripeteva in continuazione arrivando a proporre quella frase per dare un nome al disco in lavorazione.
La scelta cadde su In Utero e su Steve Albini, che reinventò il suono dei Nirvana. Una perfezione, dicevamo, che ormai tormentava Kurt Cobain e soci: Butch Vig aveva creato il capolavoro con Nevermind, ma quel mondo ovattato era diventato la forfora sulle giacche, la zanzara che ridestava dal sonno ristoratore. In Utero uscì il 21 settembre 1993 e conteneva l’ultimo guizzo di rabbia e dolore di un ragazzo di appena 26 anni, “appena” perché negli occhi aveva la catastrofe.
Una catastrofe tradotta nel contrasto “father/dad” di Serve The Servants e nella melodia tormentata di Heart-Shaped Box, nella provocazione di Rape Me e nella struggente Dumb: “Penso di essere stupido, o forse soltanto felice”. Quella All Apologies, poi, suona ancora tremendamente come un testamento.
Oggi In Utero dei Nirvana è il ritratto di un Kurt Cobain più nudo che mai, emotivamente provato da tutto ma con tante cose da rimettere in ordine, almeno un’ultima volta.