Tre Manifesti A Ebbing, Missouri: l’America amara del film premio Oscar con Frances McDormand

Stasera alle 21.20 su Rai Tre il bel film diretto da Martin McDonagh. Un racconto sull'America profonda, illuminato da una sceneggiatura che mescola ferocia e umorismo e da un impeccabile gioco d'attori

Tre Manifesti A Ebbing

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Tre Manifesti A Ebbing, Missouri si rivelò alla Mostra del cinema di Venezia, tre anni fa, vincendo il premio per la miglior sceneggiatura, iniziando un percorso folgorante che l’avrebbe condotto a quattro Golden Globes e due Oscar, alla protagonista Frances McDormand e al non protagonista Sam Rockwell. Il racconto è cadenzato sul ritratto d’una donna forte e volitiva (bravissima la McDormand), che esce allo scoperto per chiedere giustizia dopo l’uccisione della figlia a seguito d’una violenza sessuale, morte per la quale non c’è un colpevole.

Mildred, questo il suo nome, reagisce all’inconcludenza delle indagini con un atto esorbitante. Affitta tre grandi cartelloni pubblicitari appena fuori l’abitato di Ebbing, immaginaria cittadina del Missouri, sui quali espone tre manifesti dalle scritte a caratteri cubitali, nere su fondo rosso sangue, che chiedono conto allo sceriffo Willoughby (un misurato Woody Harrelson) del suo fallimentare operato. Lo sceriffo in cuor suo simpatizza con la frustrazione della donna, ed è consapevole di non essere in grado di condurre a buon fine le ricerche di polizia perché ha un cancro allo stadio terminale. Conclude il profilo dei tre ruoli principali l’agente Dixon (Rockwell), razzista, ottuso e violento, intimamente fragile nella sua dipendenza da una madre alcolizzata di fronte alla quale persino balbetta.

I Tre Manifesti A Ebbing, Missouri risvegliano la comunità dal torpore, dall’immobilità d’una cittadina conficcata in uno stato del Midwest in cui si mescolano gli antichi retaggi d’intolleranza del vecchio Sud schiavista con lo spirito da giustizia fai da te dei cowboy della frontiera. In effetti, nella determinazione inflessibile di Mildred c’è qualcosa che va ben oltre il senso di giustizia e sconfina in uno spirito di vendetta cieco, nel quale il dolore s’impasta coi sensi di colpa – la famiglia di Mildred non è esattamente esemplare e in un flashback la figlia litigando con la madre s’augura di essere stuprata.

La brutalità di cui la ragazza è stata fatta oggetto viene idealmente esposta sui manifesti. Ed è come se tutta la violenza sottaciuta della comunità venisse apertamente dichiarata. Un ammirevole atto di rottura dell’ipocrisia, certo, ma anche un gesto probabilmente inopportuno. Infatti il figlio (Lucas Hedges) rinfaccia alla madre Mildred quel dettaglio sbattuto impudicamente sul cartellone, “violentata mentre moriva”, che lui avrebbe preferito non conoscere. E non è quella l’unica volta in cui Mildred travalica il limite, macchiandosi di colpe in cui si condensa quella ferocia cupa che caratterizza tanto lei quanto il mondo che le ruota intorno.

I tre impressionanti manifesti che fanno scattare il racconto a orologeria di Martin McDonagh

Non c’è però solo la sorda violenza in Tre Manifesti A Ebbing, Missouri: perché in questo luogo crocevia tra Sud e Ovest il film torva un tono in cui gli accenti più duri e lugubri entrano in cortocircuito con un’attitudine sardonica, in cui l’umorismo tagliente di dialoghi laconici ed esatti costituisce l’altra faccia della rabbia compressa. McDonagh, anche autore della sceneggiatura, è pure bravissimo, si pensi alla sequenza dell’interrogatorio dello sceriffo a Mildred, nel passare dalla tensione alla commozione – in generale a Willoughby è demandato lo spirito misericordioso del film, sintetizzato in una serie di lettere che l’uomo, conscio di essere prossimo alla fine, scrive a Mildred e Dixon, bisognosi d’un consiglio per mitigare il loro furore e compiere scelte più sagge.

La mescolanza di toni, tra ferocia e umorismo, ricorda a tratti il cinema dei fratelli Coen, anche per la presenza iconica della McDormand, moglie di Joel Coen. Ma il paragone regge fino a un certo punto, perché l’ironia del film di Martin McDonagh non fa pensare tanto al gusto del paradosso dei Coen, esilarante ma distaccato, ma è invece più doloroso e partecipe, vicino ai personaggi che descrive con adesione. È così persino per l’ottuso e apparentemente irricuperabile Dixon, capace di trarre importanti lezioni dagli accadimenti. E lezioni ne trae tutto il film, che diversamente dallo stile più pulp dei suoi due film precedenti, In Bruges e Sette Psicopatici, McDonagh chiude su una nota, se non di speranza, perlomeno dubitativa rispetto ai protagonisti e il loro futuro.

La notevole sceneggiatura di Tre manifesti A Ebbing, Missouri tradisce forse una calibratura eccessiva, con i colpi di scena disposti con sapienza programmatica nei momenti topici dell’arco narrativo a definire alcune svolte nette. Ma è fuori discussione il talento d’un autore che sa come si scrivono i personaggi, portatori di conflitti individuali che si riverberano su quelli collettivi. Così il film, che si giova dello sguardo esterno d’un regista e sceneggiatore inglese di provenienza teatrale, riesce nel suo impasto di tragedia e melodramma a dar vita a un racconto urticante, non placato né compiaciuto, sull’America profonda. Un paese che non viene giudicato o tantomeno assolto, bensì messo in scena su dei manifesti che hanno, non è un caso, le stesse proporzioni d’uno schermo cinematografico.