Ema, Pablo Larraín cambia pelle in un film sulla passione e il desiderio

Il celebrato regista cileno ripensa dalle fondamenta il suo cinema, in un’opera incendiaria, un melodramma sintonizzato su stili, culture, immaginari contemporanei. Con una protagonista magnetica, Mariana Di Girolamo


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Non è strano che Ema esca quasi clandestinamente nei cinema, dopo la pandemia ed esattamente un anno dopo la sua partecipazione in concorso alla Mostra di Venezia del 2019. L’ottavo film di Pablo Larraín, regista cileno tra i più celebrati del panorama attuale, è infatti un oggetto difficilmente classificabile nella sua carriera. Affermatosi con film cerebrali e ripiegati sul passato, a partire dalla trilogia sul Cile degli anni di Pinochet (Tony Manero, Post Mortem e No – I Giorni Dell’Arcobaleno), o il penultimo Jackie, sulla vedova Jacqueline Kennedy e la sua lucida creazione intorno alla drammatica morte del marito di una mitologia perfettamente raccordata alla società dello spettacolo, con Ema pare improvvisamente ribaltare la sua prospettiva, con un racconto ambientato nel Cile contemporaneo, che ne fotografa stili, culture, immaginari.

La protagonista, Ema (la magnetica Mariana Di Girolamo), è una ballerina che, insieme al compagno, ben più grande di lei, Gastón (Gael García Bernal), regista e coreografo della compagnia di danza in cui lavora, ha adottato un bambino difficile già grandicello, Polo (Cristián Suárez), che però viene abbandonato dopo un suo inspiegabile gesto violento. Quel fallimento la segna profondamente, e allora la giovane donna si mette alla ricerca della nuova coppia cui è stato affidato il bambino, per entrare nelle loro vite e recuperare il rapporto con Polo.

La struttura di partenza è quella di un melodramma coinvolgente, apparentemente lontanissimo dalle corde di un regista intellettualistico come Larraín, Il quale si immerge nel genere da un lato scomponendo la storia in un caleidoscopio di momenti nei quali, fino alla soluzione finale, è difficile scorgere una chiara linea narrativa, con un trattamento frammentato della vicenda che può ricordare sommariamente Iñárritu. Dall’altro, e soprattutto, Larraín alza la temperatura del racconto inseguendo il carattere e lo stile di vita di Ema, una ballerina di danza moderna, emancipata e dalla sessualità molto libera.

Il film diventa un’immersione nella musica e nella danza, con fratture nel racconto che, come in un musical sui generis o un videoclip mostrano la frenesia di Ema, ritratta sia nelle articolate coreografie disegnate dalle ambizioni sperimentali di Gastón, sia nel più popolare, sanguigno reggaeton. E la sessualità, anzi la pansessualità di Ema è ugualmente febbrile, s’appropria dello spazio della messinscena che si carica, assecondando la protagonista, di colori acidi, che deragliano dall’usuale, austero autocontrollo di Larraín.

Sembra un frutto eterodosso nel suo cinema questo Ema, un esperimento e anche, per lui, un corso accelerato di contemporaneità. È “una cosa del tutto nuova”, come ha dichiarato lui stesso, “le persone della generazione rappresentata nel film sono nate, probabilmente, in questo secolo o verso la fine del secolo scorso; è una generazione che danza senza alcun tipo di pudore, che si esprime attraverso il corpo e la musica in modo totalmente diverso dalla mia generazione”. Il regista ribalta la prospettiva che lo ha caratterizzato sino a oggi, dell’interrogazione sul passato e del Cile della dittatura, di cui rendeva conto alla generazione dei padri, e si pone in dialogo, stavolta diventando lui l’adulto, con un mondo completamente diverso, con una nuova generazione che di quelle dolorose autopsie del tempo perduto, di quelle ferite, non porta più le tracce e forse nemmeno la memoria.

È come se Larraín si aggirasse con un moto di forte curiosità, e non senza qualche perplessità (la sfuriata di Gastón contro il reggaeton l’avrebbe potuta forse pronunciare anche lui), in una realtà di cui prende le misure. E in quella prima inquadratura d’un semaforo incendiato è la metafora di un cinema alla ricerca di vie meno prescrittive, non cadenzate da regole predefinite ma disposte a lasciarsi indirizzare dal ritmo della vita pulsante, da cui anche una camera mobile pronta a seguire i movimenti e i sussulti dei personaggi, anzi del personaggio Ema, metronomo fisico ed emotivo del racconto.

Le nuove forme di un Pablo Larraín alla ricerca di un’altra temperatura

A partire da queste premesse, il risultato non può che essere un film spurio, non perfettamente compiuto come le usuali, calibrate macchine narrative di Larraín. Può suscitare Ema un’impressione, per un autore così metodico, dell’esercizio di stile. In fondo, per un regista che è riuscito a fare un film sugli anni Ottanta, No, con un piglio talmente filologico da farlo sembrare un’opera riesumata da quel decennio, non sarebbe difficile prendere forme e temi dell’oggi – l’impudicizia naturale, l’individualismo, i nuovi modelli familiari, la fluidità dei generi sessuali – e accumularli a bella posta in un oggetto ammiccante e programmaticamente contemporaneo, che gli permetta di “travestirsi” da cineasta sintonizzato sul proprio tempo.

D’altronde questo dubbio è connaturato al modo di fare cinema di Larraín, con i suoi film sempre così controllati e stilisticamente maturi da far venire il sospetto che tutto sia stato furbescamente studiato a tavolino. Eppure, in questo carotaggio sul contemporaneo che è Ema, letteralmente “incendiario” nella forma, lo sforzo di uscire fuori dal suo canone sembra, se non pienamente sincero, autenticamente ricercato. Probabilmente questo film avrà bisogno dei successivi per essere giudicato, aspettando di essere collocato in una possibile nuova stagione del regista di cui potrebbe costituire l’embrione, certo confuso e a rischio di manierismo, ma generoso nel suo mettere e mettersi in gioco sulla via di una ridefinizione del proprio stile autoriale.