L’angelo del crimine è Carlos (Lorenzo Ferro), diciassette anni, ricciolo biondo, aria indisponente, sessualità sfuggente – “sembri Marilyn Monroe”, commenta qualcuno. Più di tutto, sebbene sia stato cresciuto da una famigliola perbene, il ragazzo è un totale amorale appassionato di furti d’appartamento. Nella prima sequenza del film lo vediamo entrare indisturbato in una bella casa altoborghese di Buenos Aires – siamo nel 1971 –, attardarsi ballando sulla moquette rossa del salone e poi tornare a casa con una motocicletta “presa in prestito da un amico”, come dice ai genitori – la Cecilia Roth musa di Pedro Almodóvar, che coproduce il film, e Luis Gnecco, volto iconico dei film di Pablo Larraín – che fingono pietosamente di credere alle sue bugie.
Le cose peggiorano quando Carlos adocchia a scuola un ragazzo dall’aria ancora più spavalda, Ramón (Chino Darín). Fa di tutto per litigarci, quello lo pesta brutalmente e alla fine, manco a dirlo, diventano amici per la pelle, attraversati anche da un’elettrica attrazione reciproca. Ramón gli fa conoscere la sua famiglia sui generis, col padre ex galeotto e tossicomane e la madre attratta dai ragazzini. E gli argini già fragili dell’autocontrollo di Carlos finiscono per spezzarsi definitivamente, con i due amici impegnati in scorribande criminali sempre più arrischiate e sfrenate. Soprattutto Carlos, che ruba e uccide con impassibile naturalezza.
L’angelo del crimine di Luis Ortega s’ispira alla storia vera di Carlos Robledo Puch, passato alle cronache argentine come l’“angelo del male”, un criminale che tra il 1971 e il 1972 si macchiò di 11 omicidi più innumerevoli rapine, per i quali venne condannato all’ergastolo (a tutt’oggi è il più longevo carcerato della storia del paese). Il regista gioca tutto sul pedale dell’ambiguità esibita dell’enigmatico protagonista, con l’aria bella e dannata del ribelle con la sigaretta eternamente tra le labbra e la tranquillità quasi distratta che mostra nel commettere omicidi insensati.
Il film avrebbe ambizioni anche più ampie del romanzo criminale, vista l’ambientazione in un periodo storico preciso, gli anni più turbolenti dell’Argentina dei golpe orchestrati dall’esercito, un attimo prima del fugace ritorno di Perón e della dittatura militare del 1976. Ma tutto questo, nonostante la presenza d’una polizia occhiuta dai modi tutt’altro che democratici, resta sullo sfondo de L’angelo del crimine. E l’epoca emerge più dai dettagli e dal gusto vistoso di ambienti, design, vestiti e soprattutto musiche, un florilegio di canzoni rock e pop d’annata rigorosamente in spagnolo, con cover riconoscibili di brani come Non ho l’età e The House of the Rising Sun.
Così, L’angelo del crimine sembra proprio una cover di quel cinema americano che dagli anni Settanta in poi della poetica della violenza ha fatto una cifra espressiva fondamentale. L’orchestrazione di colonna sonora e movimenti di macchina debitrice ovviamente di Scorsese, il gusto per una messa in scena rallentata e paradossale delle scene d’azione criminale, il salto dai campi medi a close up di dettagli feticisti tipico dell’estetica di Tarantino.
C’è giusto, a distinguerlo dal modello, un’aria di più densa sensualità con brividi omo – Carlos che copre di gioielli il sesso di Ramón –, in un racconto abbastanza esteriore che, invece di scavare dentro la materia e il problematico sfondo storico, s’accontenta delle forme e dei colori di un’epoca appetitosamente vintage, che su grande schermo funziona sempre che è una meraviglia.