Dopo quindici anni di dittatura, nel 1988 in Cile fu indetto un referendum per chiedere ai cittadini se volessero confermare il generale Augusto Pinochet quale presidente della Repubblica. Il plebiscito era previsto dalla Costituzione entrata in vigore nel 1980, per dare una parvenza di democraticità al regime. Imprevedibili, invece, furono la risposta del paese, che scelse il “No” a Pinochet con il 56% dei voti, e soprattutto la dinamica con cui si giunse all’inatteso successo. Perché il “No” al tiranno non fu espresso a pugni chiusi ricordando, come sarebbe stato legittimo e comprensibile, la tragica storia di violenze e torture cui era stato sottoposto il popolo cileno. Il “No” fu pronunciato con un sorriso, accompagnato da un simbolo color arcobaleno e un insistito richiamo all’allegria.
Combattere l’oppressione con la felicità: un’idea da pubblicitari, non c’è che dire. Infatti, la storia che racconta No – I giorni dell’arcobaleno del regista cileno Pablo Larrain è quella verissima – anche se il film s’ispira alla versione “romanzata” della pièce El Plebiscito di Antonio Skarmeta – del creativo René Saavedra (Gael García Bernal), che immaginò una campagna di comunicazione spiazzante, non incentrata sull’odio e la rivendicazione del passato, ma sul vocabolario della speranza e del futuro, le merci più vietate in quindici anni di regime.
Eppure Larrain non si fa sedurre più di tanto dalla leggerezza contagiosa dell’allegria, “concept” dell’accattivante spot in perfetto stile anni Ottanta confezionato per la campagna referendaria. Dopo due cupe allegorie sul Cile di Pinochet, Tony Manero e Post Mortem, il regista stavolta racconta la fine del regime con uno stile certamente più solare e ottimista, ma senza il trionfalismo che sarebbe stato lecito attendersi in una storia dallo straordinario lieto fine.
No – I giorni dell’arcobaleno sceglie la via della lucidità e non dell’enfasi per entrare nelle pieghe di una vicenda paradossale. Paradossale perché la battaglia politica fu condotta concedendo spazi residuali alla tragicità delle storie personali di chi subì le torture, privilegiando una logica pragmatica (secondo alcuni inaccettabile) da “scordiamoci il passato”. Paradossale perché la campagna per il plebiscito impiegò tecniche di marketing che sapevano di America e capitalismo. Vale a dire ciò che i promotori del fronte del “No”, in prima fila comunisti reduci dell’epoca di Allende, avevano forse più in odio: gli Stati Uniti che facilitarono l’affermazione di Pinochet e quel linguaggio pubblicitario che per un marxista è il simbolo della persuasione occulta consumista (“A me sembra una pubblicità della Coca-Cola”, commenta puntualmente un rappresentante del partito quando vede lo spot).
Prima ancora che un film d’impegno civile sulla memoria storica del paese (è anche questo, naturalmente), No – I giorni dell’arcobaleno è il “making of” di una campagna pubblicitaria, che narra di riunioni, brainstorming, focus group, casting. Riproduce alla lettera la potenza seduttiva del linguaggio pubblicitario, che punta esplicitamente sull’emotività, filtrandolo però attraverso la capacità analitica del linguaggio cinematografico.
Solo che Larrain non utilizza il cinema come dispositivo d’autore che ha l’obiettivo di svelare la natura manipolatoria dei codici pubblicitari. Per questo il regista gira il film con videocamere degli anni Ottanta: non per un assillo filologico, ma per fare in modo che le immagini di una pellicola del 2012 e quelle di una pubblicità del 1988 siano indistinguibili tra loro. Pare che il trenta percento di No – I giorni dell’arcobaleno sia composto di spezzoni d’epoca, tra cui ovviamente il vero spot della campagna referendaria. Ma per lo spettatore è impossibile notarlo, perché tutto il film ha la grana visiva di un reperto di trent’anni fa, come di una vecchia videocassetta tirata fuori dalla soffitta.
In questa sovrapposizione estetica c’è la scelta più audace e convincente, che consente a No – I giorni dell’arcobaleno di mantenere uno sguardo problematico, all’altezza della complessità del reale. Larrain rifiuta giudizi affrettati sulla superiorità dell’arte cinematografica rispetto alla propaganda pubblicitaria (come potremmo affermarlo, proprio nel momento in cui entrambe parlano letteralmente la stessa lingua?). E nemmeno emette sentenze moralistiche su quanto sia inopportuno e inaccettabile occultare il dolore lungo quindici anni di un intero paese dietro l’allegria di uno spot patinato.
Invece Larrain racconta, in maniera avvincente e senza intellettualismi, l’intrinseca ambiguità del reale: dove i “buoni” e i “cattivi” camminano affiancati (René lavora nell’agenzia che segue la campagna di Pinochet) e dove un pubblicitario usa indifferentemente le stesse parole (“quello che state per vedere è in linea con il contesto sociale attuale; oggi il Cile pensa al suo futuro”) per raccontare ai committenti la strategia di lancio di una soap opera e lo spot che servirà per vincere il referendum e riconsegnare una nazione alla democrazia.