Fossi tra quanti si sentono in necessità di stare sempre nel flusso giuro che in questi tempi mi troverei in grande difficoltà. Fortunatamente sono invece un asociale refrattario alle mode, al punto da passare per uno che applica a sé la logica del bastian contrario sempre e comunque, che però di quello che sta costantemente nel flusso è semplicemente la versione al negativo.
È vero, con il lock down, il distanziamento sociale, la ripartenza lenta e neanche del tutto compiuta parlare di stare nel flusso può risultare quasi assurdo, ma sto parlando di social, di web, quel non luogo nel quale tutti viviamo parallelamente, e che mai come oggi, proprio in virtù del distanziamento sociale e di tutto il resto, sembra centrale, quasi sostitutivo del vivere fisico.
Quello che a me risulta difficile, dovrei forse dire addirittura impossibile, è stare sul pezzo, nel flusso, appunto.
Non sono pigro, ma diciamo che non sono neanche uno di quelli che se per qualche ora gli capita di non fare niente poi ricorre al cilicio o altre pratiche masochistiche per espiare sensi di colpa. Seppur in passato sia passato per quello che ha mosso le inchieste che poi hanno portato a galla certi malcostumi quali i finti sold-out, i conflitti di interessi al Festival di Sanremo, la malagestione di certi promoter, non credo di aver mai fatto uno scoop che tale si possa definire in tutta la mia vita, anche avendone avuto possibilità in virtù del mio occuparmi quasi a tempo pieno del sistema musica. Non faccio scoop perché non sono interessato a farne, essenzialmente, e perché, in tutta onestà, di dare una notizia per la notizia in sé non mi occupo. Se devo sapere cosa sta succedendo, o cosa sta per succedere, in genere, ricorro a quello che scrivono quelli brani in questo campo, i giornalisti. Io preferisco commentare, provando a addentrarmi in analisi che magari guardino il tutto da un punto di vista diverso, o anche inquadrare certi determinati fatti in panorami più ampi, ma non arrivo per primo se c’è da raccontare un fatto di cronaca.
Neanche esco di casa, metaforicamente, se c’è da un raccontare un fatto di cronaca.
Poi, che io lo sappia fare, raccontare, meglio di tanti giornalisti, magari, potrebbe anche essere, per cui se mi dedico a commentare una notizia anche già vecchia di qualche ora, se non di qualche giorno, succede spesso che i miei pezzi diventino virali, ma quella è una questione di stile, e la velocità, nel campo dello stile, non è caratteristica che ha alcun valore.
Come potete immaginare, se vengo a sapere che è successo qualcosa perché lo leggo su un qualche social, magari perché è in trend topic su Twitter, è evidente che non sarò io a dare la notizia. La potrò commentare, se ritengo che sia particolarmente interessante, ma il fatto che arrivi dopo sul luogo del crimine spesso mi induce a non farlo. Sarei solo l’ultimo stronzo a parlarne. Anche nel campo specifico nel quale opero, la musica, tendo a non pubblicare mai recensioni di album anche piuttosto importanti nel giorno in cui escono. Non solo e non tanto perché io aderisca anima e corpo al noto adagio nannimorettiano, “mi si nota di più”, quanto perché, spesso, scopro che qualcuno ha pubblicato un album nel momento in cui vedo che escono le recensioni, come scopro che ci sono determinati eventi perché vedo le foto sui social.
Intendiamoci, anche per non passare per quello che piange perché tenuto fuori dai giri giusti, ricevo gli inviti, i comunicati stampa, tutte le informazioni del caso, ma procedo coi miei tempi, e spesso leggo quelle mail troppo tardi. Ne scrivo coi miei tempi e sì, il fatto di farlo qualche giorno dopo la massa, in genere, porta pure più lettori, nonché una certa attesa, non fingo di essere Cappuccetto Rosso che attraversa candido il bosco.
Poi però, siccome sono un uomo di questo mondo, mio malgrado, noto atteggiamenti assai diversi tra quanti, in qualche modo, esercitano una professione non troppo diversa dalla mia. Da una parte ci sono quelli che danno le notizie stringate, come fossero l’Ansa. Ne vedo parecchi, quegli stessi parecchi che poi pubblicano le foto degli eventi, le conferenze stampa, le presentazioni, che se c’è un terremoto da qualche parte, per dire, fanno un tweet che dice “terremoto a XXX”. Così, notizia secca. Ora, siccome nessuno di quelli che in qualche modo pratica la mia stessa professione ha un seguito tale da giustificare questi tweet o questi posto come servizio pubblico, mi chiedo il senso di questo agire. Se voglio sapere cosa sta succedendo, appunto, o mi rivolgo ai trend topic o leggo i giornali, ma anche nei trend topic, tendo a andare all’origine, alla fonte, non certo a chi riprende semplicemente una notizia data da altri, peggio di altri.
Poi, e questa è la categoria che mi ha spinto a partire per questo pezzo con l’incipit che avete letto, ci sono quelli che, tutti i santi giorni, si trovano costretti, perché a questo punto spero che sia una faccenda di costrizione, che qualcuno gli abbia rapito un parente caro, un cane, che abbia foto compromettenti che li mostrano a un concerto dei Modà, non può essere solo una forma inspiegabile di vis comunicatori, c’è la categoria di quelli che tutti i giorni dedica un lungo post, in questo Facebook la fa da padrona, a quello che è l’argomento del giorno. Scrivono quasi sempre post molto ma molto ma molto, troppo diciamo, retorici, tutti con una poetica piuttosto chiara, immobile giorno dopo giorno. Lunghi post con tanti a capo e spazi bianchi tra un blocco e l’altro di parole. Attacchi secchi, senza verbo, e chiusure a effetto, con un classico “Un uomo” o “Chapeau” a sottolineare la grandezza di chi si parla, se si parla di qualcuno cui guardare con stima, “se questo è un uomo” o qualcosa di simile, se si parla di persona da biasimare, quasi sempre, nel caso, è di Salvini che si sta parlando. Le storie raccontate non sono mai quelle di apertura dei quotidiani, o se in qualche modo lo sono, presentano una storia specifica che peschi in quello stagno, dando modo di abbuffarsi di retorica. La ragazzina extracomunitaria che gioca nella nazionale paraolimpica presa di mira dai bulli, il calciatore arrivato in Italia col barcone che segna a San Siro, il bambino che gioca con la bambola e viene attaccato da un qualche omofobo. Tutte storie che darebbero davvero spunti per riflessioni serie, non fossero trattate tutte alla stessa maniera, ognuno di questi personaggi ha un proprio gergo, simile a quello degli altri ma al tempo stesso proprio, gergo che però non permette mai di andare a fondo, come di chi provi a fare immersioni con bombole prive di ossigeno.
Così capita che, se si è tra quanti frequentano con una certa costanza i social, la nostra home sia invasa di condivisioni di post che, non fosse per il nome del profilo che li ha generati, si tratti di Leonardo Cecchi, di Lorenzo Tosa, di Enrico Mola o di uno di questi bizzarri influencer, sembrerebbero generati da uno di quelle app che spesso finiscono nelle meme. Tipo, il generatore automatico di frasi di Nicky Vendola che girava anni fa, e via con periodo prolissi e verbosi che, in bocca all’allora governatore della Puglia sarebbero parsi del tutto coerenti.
Al punto che, uno come me poco incline a stare nel flusso, il bastian contrario di cui sopra, quasi sarebbe portato a fare il tifo per i cattivi che quei post in genere stigmatizzano con tutte le armi spuntate di quella facile retorica pret-a-porter.
Tentazione che non prende mai vita, intendiamoci, perché le storie di cui questi soggetti parlano, seppur raccontate male e con una lingua di merda, sono pur sempre storie degne di rispetto, intendiamoci. Non è che, per capirsi, riuscirei mai a stroncare un album solo perché ne hanno parlato prima di me altri critici, magari col loro stile da “ora vi spiego il mondo”, senza un minimo di ironia, di leggerezza. Va beh, qualche volta l’ho fatto, ma era per scherzare, la verità non può cadere vittima di certi biechi cronisti omologati.
Selvaggia Lucarelli, parlandone, li ha definiti settimane fa (appunto) la Bestiolina, la versione buonista e pelosa della Bestia di Salvini, e trovo che sia una definizione perfetta, tanto la Bestia punta alla pancia quanto la Bestiolina al cuore, nel mio caso, in entrambi i casi, solo i coglioni vengono colpiti.
Io, nella cronaca come nella musica, preferisco parlare di cose mie, ma quando proprio non posso fare a meno di dire la mia riguardo un argomento particolarmente alla moda, di quelli, appunto, che la mattina presto hanno indotto quei figuri a dire la loro, nel solo loro modo, aspetto qualche ora, volendo qualche giorno e poi, del tutto fuori tempo massimo, quando la gente neanche si ricorda più dell’argomento di cui sto parlando, perché nel mentre i tipi hanno tirato fuori altri temi caldi, sempre i medesimi per tutti loro, rendendo quello su cui scrivo io oggetto di modernariato, ci scrivo su un bel post, in alcuni casi anche un pezzo, causando immagino imprecazioni accese nella redazione che si trova a lavorarlo e pubblicarlo.
Per dire, oggi mi ritrovo a dire la mia sulla faccenda di Chiara Ferragni che circa un mese fa è diventata “testimonial per un giorno” degli Uffizi, e col direttore degli Uffizi, forse è questo più il cuore del discorso, che ha postato la foto della Ferragni davanti alla Venere di Botticelli definendola “divinità contemporanea”.
Ora, io non credo di aver mai scritto una sola singola parola su Chiara Ferragni, mi sono trovato a scriverne sul marito, che per brevità da ora in poi chiameremo Stocazzetto, ma della Ferragni non mi sono occupato mai. Non perché io non abbia maturato miei pensieri riguardo la Ferragni, suppongo che qualcuno si sarà immediatamente allarmato a riguardo, ma per il semplice fatto che di scrivere di una influencer, capace, capacissima, intendiamoci, ma che campa proprio sul fatto che qualcuno ne parli, ne scriva, condivida le sue foto, la ami o la odi, amore e odio hanno lo stesso potere, credo, non mi interessava. Non volevo, in sostanza, mettere benzina alla macchina già ben avviata della Ferragni, lei non ne aveva bisogno, io non ne sentivo la necessità né il piacere. Però ho letto troppe parole scomposte riguardo quella foto e quei post. Parole che molto spesso, troppo spesso, scivolavano nel facile sarcasmo social, quello che crede di smontare un mobile Ikea proprio nel momento in cui, in realtà, gira l’ultima brugola e lo rende perfetto, senza neanche un bulloncino rimasto a terra (so che è impossibile montare un mobile Ikea senza lasciare fuori qualche componente, amici, scherzavo, era per dire una cosa assurda).
Ma è passato un mese esatto, credo di potermi permettere un ragionamento senza essere tacciato di stare a inseguire la notizia del giorno.
Ferragni e Uffizi, Uffizi e Ferragni, quindi. Ne abbiamo lette e sentite di tutte. Dico la mia.
Credo che il punto non sia la liceità o meno che gli Uffizi si aprano a shooting di moda, lo fanno da anni, e continueranno a farli, anche quello è un modo, forse antico e fuori tempo massimo, per farsi pubblicità, oltre che di fare cassa, né che il direttore degli Uffizi, tale Schmidt, decida di accompagnare in una visita privata, notturna, una nota influencer in giro per gli Uffizi.
Forse il punto non è neanche che poi il social media manager degli Uffizi definisca la Ferragni come sopra detto, non è rilevante, i social si nutrono di clamori, di eccessi, di paradossi, clamori, eccessi e paradossi che però durano il tempo di un colpo di tosse, e probabilmente mai metafora fu più sbagliata che parlare di un colpo di tosse in epoca Covid19.
Credo che il cuore della faccenda sia tutta qui, piuttosto plastica, viviamo in un’epoca nella quale per giocare sul marketing si arriva a paragonare un’opera d’arte che ha superato i secoli, non un selfie, non un post, un’opera d’arte tra le più note, volendo anche pop degli Uffizi, uno dei più importanti musei d’arte al mondo, e dove a azzardare questi paragoni siano gli stessi operatori degli Uffizi, operatori che vogliono farci credere, così sembra, che questa operazione porti visitatori a quel museo, ma che in realtà, i fatti dicono questo, portano solo pubblicità gratuita a un direttore con un ego difficilmente contenibile in quelle pur ampie sale.
Che poi magari, sia anche vero che qualcuno è andato a vedere gli Uffizi per quei post, non è da escludere a priori, intendiamoci, quando Beyoncé e Jay-Z, certo stiamo parlando di numeri assai diversi, molto più alti, andarono a girare un video a Louvre, davanti alla Gioconda, il museo parigino riscontrò, nell’immediato, un picco di visitatori (nell’immediato ma che durò a lungo, e i dati vanno letti così, intendiamoci, sul lungo) attribuibili appunto alla pubblicità che quel passaggio portò. Peccato che questo non sia il caso in oggetto, e soprattutto, che anche lo fosse, il danno culturale causato dalle parole del direttore degli Uffizi, temo, sia assai più incisivo di qualche decina di ragazzini arrivati a Firenze sulla scia di chi, abitualmente, promuovere un nuovo shampoo della Pantene.
Viviamo infatti nell’epoca nella quale, il direttore degli Uffizi, per difendere la sua scelta, che magari è legittima, ma che a un sacco di gente è sembrata sbagliata, utilizza un’intervista a un quotidiano per dare degli snob e intelletualoidi a chi ha portato critiche, come un leghista qualsiasi che da anni utilizza il termine “intellettualone” o “professorone” per stigmatizzare chi in effetti fa uso di intelletto e lavora nella cultura, come un Tremonti che dice “Con Dante non si mangia”, così, a svilire cultura e arte, lo stesso direttore che poi conia il termine “puzzalnasismo”, spero che non esistesse già prima e comunque, se anche così non fosse, lui lo conosceva e io no.
Cioè, il direttore degli Uffizi dice “puzzalnasismo”, ripeto.
Peggio, dice pure che gli Uffizi sono stati il primo museo a finire su Tik Tok, e aggiunge che è così che si avvicinano i giovani, che se no non avrebbero mai sentito parlare degli Uffizi, come se scopo di un direttore di un museo fosse quello di far sì che dei ragazzini ne sentano parlare, di un museo, non andarci e ammirarne le opere. Mah. Parliamone.
Non so voi, ma a me di vivere in un’epoca nella quale una foto di Instagram ha questo potere un po’ fa cagare. Come mi fa cagare vivere in un’epoca nella quale chi è chiamato a dirigere gli Uffizi parla in quel modo, cita Tik Tok, poi rivendica il proprio lavoro tirando fuori dati inesistenti a distanza di un paio di giorni, dati che ovviamente sul lungo, parliamo di quasi un mese fa, magicamente non vengono più citati, anche perché nel mentre Musei Vaticani e altri luoghi di cultura ne hanno portati di simili, pur senza l’influsso benefico della Ferragni, come se di colpo oltre settecento bambini e ragazzini avessero convinto da un giorno al giorno seguente i propri genitori a fare una gita a Firenze per andare agli Uffizi perché hanno visto una foto con la Ferragni, proprio quest’anno, col delirio che c’è negli spostamenti.
Perché, parlo del primo aspetto, saremo fatti male noi, quando ero bambino mi avevano parlato degli Uffizi a scuola, le mie maestre, e poi i miei professori delle medie, e me ne avevano parlato i miei genitori, certo usando altre parole, e questo era stato sufficiente a incuriosirmene, al punto che, la prima volta ci sono andato in gita scolastica, ma poi, giovane, molto giovane, ci sono tornato con l’allora mia fidanzata, oggi mia moglie, quando siamo andati a fare una vacanza dalle parti di Firenze. Certo, potrebbe aver influito, non poco, una determinata scena del film Le avventure del Barone di Munchausen di Terry Gilliam, nel quale era una giovanissima Uma Thurman, appena diciotto anni, a interpretare la Vespucci, musa ispiratrice della Venere di Botticelli, come ci ricorda anche il post con la Ferragni degli Uffizi.
Ecco, diciamo che quel passaggio del film me lo ricordo ancora bene a distanza di trentadue anni, ma ricordo anche che degli Uffizi avevo già sentito parlare prima, e che ci ero andato in gita scolastica.
Dubito che ci sarei andato se me lo avesse suggerito Samantha Fox da Deejay Televion o Mr T in una puntata di A-Team.
Non voglio certo dire che eravamo meglio noi, all’epoca si viaggiava meno, tutto era più macchinoso, e si conoscevano meno cose e più a fatica, c’era una assai minore possibilità di informarsi, per dire, si passavano pomeriggi interi in biblioteca per fare ricerche che oggi, volendo, si fanno in dieci minuti su Google.
Volendo, ecco, forse il punto è tutto lì.
La cultura è altro da un Like, e temo anche da una visita fugace per farsi un selfie dove se l’è fatto una divinità contemporanea. Ci ho messo un mesetto per dirlo, ma a bocce ferme mi sento di inciderlo sulla pietra. I selfie non sono cultura e non promuovono la cultura, ma semmai promuovono chi quei selfie li veicola, in barba alla cultura stessa.
Tocca sudare per far innamorare qualcuno, i colpi di fulmine, in genere, funzionano solo nei film.
Riguardo al puzzalnasismo, invece, non c’è nulla da aggiungere, credo.
Puzzalnasismo e Tik Tok… ma vaffanculo, va’.