“Mai Raramente A Volte Sempre” sono le quattro risposte possibili del questionario cui deve sottoporsi Autumn, una diciassettenne della Pennsylvania che è andata a New York perché lì è possibile per una minorenne abortire senza il consenso dei genitori. E lei è determinata a compiere in piena autonomia le sue scelte, senza ingerenze familiari.
La forza e la durezza fin lì mostrate hanno però un momento di cedimento di fronte alle domande dell’operatrice sanitaria, che le chiede con discrezione dettagli circa la sua vita sessuale e sentimentale. È l’unico momento in cui la protagonista, ripresa frontalmente, smarrisce la fermezza e dalla reticenza di una giovane donna, che nulla ha mai detto circa il chi, il come e il perché sia rimasta incinta, emergono la sofferenza e i frammenti di una vicenda in cui di delicato c’è stato ben poco.
È questa l’unica, autentica impennata emotiva di Mai Raramente A Volte Sempre (Never Rarely Sometimes Always), il film di Eliza Hittman che, dopo il passaggio al Sundance, il Gran Premio della Giuria a Berlino e recensioni entusiaste soprattutto inglesi e americane giunge in sala (si fa per dire, non sono più di una decina su tutto il territorio nazionale) in questo disgraziato agosto post Covid, destinato all’invisibilità e in attesa di recupero sulle piattaforme.
La Hittman, che l’ha diretto e sceneggiato, è al suo terzo film dopo anche esperienze per la tv con la regia di alcune puntate di 13 Reasons Why, confermando la predilezione per i temi legati all’adolescenza. La storia segue la traccia di un minimalismo laconico, che come la sua protagonista evita spiegazioni esplicite o scandagli psicologici insistiti e punta piuttosto a far emergere moventi e sussulti emotivi dalle azioni e dai silenzi della protagonista.
Anzi, delle protagoniste, perché accanto a Autumn (l’esordiente Sidney Flanigan) c’è la cugina Skylar (Talia Ryder, che vedremo nel West Side Story di Spielberg), con cui condivide il lavoro da commessa in un supermercato, l’unica ad aiutarla in questa dolorosa odissea, accompagnandola a New York e spalleggiandola con una solarità ed estroversione adolescenziali che Autumn, chiusa nel suo riserbo malinconico, ha dimenticato.
Nonostante la confezione da film indie – sebbene indipendente propriamente non sia, visto che produce la Focus Features, costola della Universal che l’ha distribuito – Mai Raramente A Volte Sempre ha un andamento più grave e serio. Asciuga i vezzi del genere attraverso uno stile più marcatamente realista, confermato dalla fotografia spenta e grigia di Hélène Louvart. Da un lato guarda al cinema della New Hollywood (l’avventura urbana in un ambiente ostile modello Un Uomo Da Marciapiede), dall’altro propende per una dizione semidocumentaria con prestiti dal cinema del pedinamento dei Dardenne, attento ai volti e ai minimi sussulti emotivi delle protagoniste. L’insieme, perciò, ha un andamento meno rasserenante e conciliato di, per fare un esempio tematicamente affine, un film più “carino” come Juno di Jason Reitman.
Mai Raramente A Volte Sempre non è un film a tesi sul tema dell’aborto. Alla struttura sanitaria del suo paese di provincia la ginecologa che le fa l’ecografia le dice, facendole sentire il battito del feto, che quello “è il suono più magico che ascolterà in tutta la sua vita”. D’altro canto a New York, nonostante la presenza degli attivisti pro-life fuori dalla clinica, Autumn trova operatori ragionevolmente attenti, partecipi e rispettosi della sua scelta. Quello che emerge, semmai, è un contesto umanamente degradato, in cui la famiglia non offre alcun supporto e in cui gli uomini sono sempre minacciosi, dallo sgradevole patrigno di Autumn all’incontro raccapricciante sulla metropolitana di New York con un uomo che oscenamente si masturba davanti alle ragazze (e il racconto del versante maschile sarebbe potuto essere meno sbrigativo).
Autumn e Skylar, col fardello di una pesante (e simbolica) valigia che si trascinano tutto il tempo, attraversano una metropoli anonima, che si mostra solo per scorci tutt’altro che scintillanti o accoglienti. Per cui tutto quel che resta alle ragazze è, nell’ingenuità e nella fragilità dei loro diciassette anni, è la forza del loro legame, un intendersi con gli sguardi, un cercarsi anche fisicamente per affermare con i gesti quell’affetto che sono incapaci di tradurre in parole. E sembra, la loro unione, l’unico accento umano in un mondo distratto, cattivo, distante.