Nei materiali promozioni di Ladyhawke, il film lo si spacciava ispirato a una non precisata leggenda medievale del tredicesimo secolo. Lo sceneggiatore invece, Edward Khmara, disse di essere stato folgorato a Parigi dalla visione dei doccioni, quelle grondaie aggettanti dalle cattedrali abbellite con figure animalesche o mostruose.
In effetti è questa la fonte dell’ispirazione di Ladyhawke, che mantiene ancora oggi il suo status di “classico minore” del cinema degli anni Ottanta grazie a questa fascinazione per il meraviglioso e il fantastico dei poemi epici e cavallereschi medievali, che però usa con la libertà e il sincretismo tipici del cinema popolare, senza preoccupazioni di attendibilità storica, mosso dalla volontà di creare un racconto emozionante, che profumi quanto basta dell’epoca che usa come fondale della vicenda.
Il fantasy era in grande auge in quella stagione, c’erano stati Excalibur di John Boorman, l’epica guerriera di Conan Il Barbaro di John Milius, Legend, La Storia Infinita, e dopo Ladyhawke verranno Labyrinth e Highlander. Era un genere amato, che si piegava con naturalezza sia ad approcci di taglio più storico che apertamente fantastico. Ladyhawke accentua vistosamente il versante romantico, creando una storia d’amore contrastata, che è anche il segreto di Pulcinella del successo del film. In un luogo imprecisato dell’Europa del tredicesimo secolo, che in edizione italiana si chiama Aguillon, ma che in originale è Aquila (dato che il film fu girato interamente in Italia, tra le province di Parma, Piacenza, Cremona e soprattutto gli Abruzzi), il capitano Etienne Navarre (Rutger Hauer) e la bella Isabeau d’Anjou (Michelle Pfeiffer) soffrono per il loro amore impossibile.
Un vescovo (John Wood) onnipotente e malvagio, accecato dalla passione per la bellissima donna, ha gettato un maleficio sugli amanti. Di giorno lei si trasforma in un falco, lui, la notte, in un lupo. Solo durante i brevissimi istanti dell’alba e del tramonto, quando non è né notte né giorno, riescono a vedersi entrambi nelle loro fattezze umane. La loro unione è senza speranza. “Povere creature mute, inconsapevoli di metà della loro esistenza”, dice il monaco Imperius (Leo McKern), che ha trovato il modo per rompere l’incantesimo. “Sempre insieme, eternamente divisi”, aggiunge il borseggiatore Philippe detto il Topo (Matthew Broderick), scappato dalle galere della fortezza di Aguillon che Navarre ha sottratto alle grinfie delle guardie.
Il buffo ladruncolo non ha nulla della seriosità da epica medievale. Interpretato dal giovane Broderick, all’epoca, dopo War Games, popolarissimo (infatti aveva il cachet più alto, 750mila dollari), il suo personaggio si aggira tra rocche e castelli parlando a tu per tu con Dio e sputando battute a raffica come fosse in una commedia di Broadway (il critico del New York Times, Vincent Canby, disse che gli ricordava Eugene Morris Jerome, il personaggio della pièce di Neil Simon che aveva allora interpretato a teatro).
- Attributi: DVD, Fantasy
- Broderick/Hauer (Actor)
Il Topo diventa non solo l’alleato della coppia ma anche il loro messaggero d’amore, unico punto di contatto che può riportare agli amanti le parole che loro non possono mai dirsi. Richard Donner, regista che veniva dal successo del Superman con Christopher Reeve (anche se ebbe enormi problemi col secondo episodio, da cui fu estromesso), e che poi avrebbe firmato I Goonies e la serie di Arma Letale, utilizza con smaliziata intelligenza le stupende ambientazioni italiane per amplificare il versante romantico della vicenda. Spesso i protagonisti sono ripresi in campo lungo, immersi in una natura rigogliosa che passa subitaneamente dai morbidi prati assolati primaverili all’autunno ai paesaggi innevati, creando un ambiente totalmente cinematografico, in cui le stagioni assecondano i sentimenti ora disperati ora teneri dei protagonisti.
L’altro motivo del successo è nella scelta degli attori. Scelta di ripiego dopo che il protagonista Kurt Russell aveva lasciato il set poco prima dell’inizio delle riprese, Rutger Hauer veniva da Blade Runner, in cui era stato il malvagio replicante Roy Batty. Proprio il celebre monologo che recitava in quel film in punto di morte, dimostrava la capacità dell’attore di giocare su una tastiera malinconica e romantica. Esattamente ciò che fa in Ladyhawke, in cui è un cavaliere da romanzo d’appendice, fiero e guerriero ma subitaneamente intenerito per il suo amore impossibile. Dall’altro lato Michelle Pfeiffer, attrice in ascesa ma non ancora celebre, dà quel giusto tocco sentimentale, insieme eterea e impalpabile ma con una indiscutibile carica erotica, che abbacina ogni personaggio che le si para di fronte. E Broderick, pure così lontano come stile di recitazione da tutto il resto, offre un indovinato controcanto buffonesco.
Il resto lo fa la fotografia dell’allora già due volte premio Oscar Vittorio Storaro, che interpreta il romanticismo kitsch del racconto incartandolo in una luminosità avvolgente, che soprattutto nei momenti del passaggio da essere umano ad animale, esaspera il controluce e gli effetti visivi, per far sì che la trasformazione non abbia nulla di brutale. Gli effetti speciali, grazie soprattutto al trucco, offrivano già al tempo notevoli possibilità: si pensi per esempio alla mutazione di Un Lupo Mannaro Americano A Londra di John Landis, che però, appunto, era raccapricciante. In Ladyhawke il tono resta sempre quello d’un fantasy sognante, per cui anche le metamorfosi debbono mantenere la stessa carezzevole morbidezza.
Rivisto a distanza di trentacinque anni, indubbiamente Ladyhawke è un po’ invecchiato, e più vistose emergono certe incongruenze e ingenuità. Ma non si spegne il piacere per una fiaba senza tempo, che racconta lo struggimento romantico di un amore impossibile: “Sempre insieme, eternamente divisi”.