Mettetevi comodi. Perché se in questi sessantacinque giorni, dovrei dire ventitré anni, magari, ma c’è caso che mi leggiate solo da che scrivo questo diario, o, chissà, siete arrivati a leggermi solo oggi, merde, se in questi sessantacinque giorni, voglio essere magnanimo, vi ho abituato a forzature non solo lessicali, ma anche logiche, ho cioè fatto deviazioni del discorso che, le avessi fatte in auto, sarei stato ingaggiato da Oler Togni come suo degno sostituto, lì in piedi in bilico sopra il finestrino, le mani come abbiamo visto fare ai surfer nei film sul surf, la macchina a procedere a zig zag tra i birilli camminando su due ruote, se, cioè, ho piegato di volta in volta la mia, chiamiamola così, narrazione a quel che avevo in mente, e dopo sessantacinque giorni, anche durante sessantacinque giorni, anche prima di questi sessantacinque giorni, a dirla tutta, la logica potrebbe non essere stata sempre presentissima, beh, oggi farò numeri da circo che più che a Oler Togni mi dovreste paragonare alla compianta Moira Orfei, lì sopra gli elefanti con chili di mascara e abbastanza lacca da aprire sopra di noi un buco nell’ozono capace di diventare un corridoio d’ingresso per le ruspe dei Vogan.
Intendiamoci, so che vi sembrerà tutto un delirio, ma lo dico sin da subito , così alla fine vi sarà chiaro che avevo previsto proprio tutto tutto, il nome Falling, ripeto, Falling, poi capirete.
Si avvicina, si pensa, si spera, non si spera, forse sarebbe meglio di no, sì, però due mesi son due mesi, ho capito, ma il numero dei morti è ancora alto, eh, ma le regioni devono partire tutte insieme, la Lombardia è la locomotiva d’Italia, milanesi di merda, si avvicina la data dell’inizio della Fase 2, lo sanno anche i muri, il 4 maggio, giorno che arriva a tre sole caselle del calendario dal Primo Maggio, festa dei lavoratori, e che dal 2020 verrà ricordato come la festa dei padroni, perché si può ripartire, riaprire, riprendere, ma per ripartire, riaprire e riprendere chi ci guida intende solo si può tornare a lavorare e consumare, poi di corsa a casa o moriamo tutti, e dire che nella mia città natale, Ancona, oggi è la festa del patrono, San Ciriaco martire, uno a cui hanno fatto bere piombo fuso, altroché festa dei padroni, si avvicina comunque la data dell’inizio della Fase 2, e ormai ci hanno spiegato con le dovute cautele e parole che dovremo iniziare a convivere, nel senso proprio di vivere insieme, sempre, con l’idea di indossare costantemente la mascherina, visto che molti dovranno andare in ufficio o in negozio o in fabbrica, sottoponendosi a rischi, e poi tornare a casa, e sappiamo bene come le case, con le fabbriche e ahimé gli ospedali e gli ospizi siano state il luogo di maggior contagio, le dovranno indossare anche in casa, per non infettare anziani, figli e quanti al lavoro non ci saranno dovuti andare, perché sono in pensione, perché studiano, perché fanno smart working o perché a dispetto di chi diceva “nessuno perderà il lavoro” il lavoro lo ha perso, eccome. Anche perché la faccenda della App Immuni, quella del consorzio che non andrò a citare dentro il quale ci sono i tre figli avuti da Berlusconi con Veronica Lario, Davide Rossi, Mediobanca, Rosso di Diesel e altra bella gente, non è che sia stata sposata proprio con felicità dalla popolazione italiana, per almeno due validi motivi, il primo di ordine pratico, Istat ci ha spiegato, con la pragmatica con cui Istat spiega le cose, appoggiandosi solo e esclusivamente sui numeri, zero poesia, che in Italia il 33,3% delle famiglie, una su tre, per i meno ferrati in matematica, non ha device, non ha cioè strumentazioni utili per navigare, dagli smartphone ai tablet, passando per i computer e i PC, non ha quindi internet, per capirsi, ma non ha neanche strumenti per navigare, questo il primo motivo pragmatico, il 33% delle famiglie, anche volendo, non potrebbe scaricarsi una app perché non ha uno strumento con cui scaricarsela, il secondo, invece, è di ordine filosofico, se è vero come è vero che Google e Apple, coloro che spesso vengono citate dai tanto sagaci temperatori della punta del cazzo come aziende che da sempre ci tracciano, a fianco di Facebook e gli altri social e di Amazon, ovviamente, vagli a spiegare che quello non è un sopruso, ma uno scambio do ut des, mica stanno lì gratis, se è vero che Google e Apple hanno lamentato che la App in questione abusi nell’utilizzo di dati sensibili, violando la privacy, se è anche vero che la App in questione si basa, in sostanza, su una autodichiarazione di malattia, un po’ come è andato per tutti questi mesi, nessuno fa tamponi o test sierologici, ci dobbiamo curare con erbe mediche e a occhio finché non entriamo in insufficienza respiratoria, a quel punto arrivano i Ghostbusters e auguriamoci non sia troppo tardi, e grazie al cazzo che si liberano le terapie intensive, molti ci finivano già mezzi morti e a suon di cinquecento morti al giorno i letti si liberano eccome, se è vero tutto questo, metteteci che la gente, mi metto per una volta tra la gente, nonostante la mia asocialità e la mia spocchia da uno non vale uno, metteteci che la gente si è rotta un filo il cazzo di essere reclusa e controllata, le nostre libertà schiacciate e accartocciate senza soluzione, perché è evidente che ormai il governo non ha la fiducia della maggioranza, se ne faccia una ragione Brian Ferry e il suo pard Casalino, se è vero tutto questo è ovvio che una App che dovrebbe segnalare chi è malato usando i nostri dati sensibili, affidati a una società privata di dubbia natura, non se la incula nessuno, e cara grazia che la gente non inizi davvero a ipotizzare di scendere in piazza con le mazze e i bastoni, lungi da me star qui a tirare fuori le casse integrazioni fantasma, i ritardi scandalosi per i bonus una tantum, e tutte quelle cazzatine lì, centinaia di miliardi promessi e mai arrivati, anche perché non veri, si parla di prestiti di banca con tassi assurdi e lo stato, cioè noi, come garanti, si parla di anticipi sui fondi dei patti di stabilità, nessun euro tirato fuori, si fottano, si avvicina la data dell’inizio della Fase 2, e tra poco tutti dovremo abituarci a andare in giro sempre con addosso la mascherina, qui volevo arrivare. Anche al mare, vorrei azzardare, non fosse che al mare, con buona probabilità, non ci andremo, ho amici che lavorano nel settore che parlano di un terzo degli ombrelloni aperti nei lidi, le spiagge libere chiuse del tutto, gente che azzarda addirittura le strutture di svago con le piscine affittate singolarmente dalle famiglie abbienti, alla faccia della livella, il bagno stabilito dai gestori dei lidi, gli ombrelloni dal numero al numero a fare il bagno dalle 10 alle 11, quelli dal numero al numero, da a, nessuno a uscire dal proprio spazio delimitato, neanche i bambini con le palette, fanculo il mare, che poi al mare con la maschera è un conto, ma quella con tubo e boccaglio, ma con la mascherina, dai, non si può proprio neanche pensare.
Io la mascherina, prima quella nera da skater e writer di mio figlio Tommaso, per la cronaca, visto che ormai viviamo in uno stato di polizia, microchip e droni, scene di ordinaria follia con vigili, militari, carabinieri o poliziotti che multano a cazzo, vessano, fanno la voce grossa, 400 euro ai genitori che portano la bambina di otto anni a fare la chemio, perché la mamma non doveva andare, solo un genitore, 400 al runner che taglia con la bici dentro il parco deserto, perché dentro il parco non si può passare, dai un po’ di potere a uno stronzo e lo stronzo ti solleverà tutta la merda del mondo, è noto, per la cronaca mio figlio è dentro il micromondo della mia famiglia in quarantena, sette persone, non le nomino tutte da giorni, io, mia moglie Marina, i miei figli Lucia, diciotto anni, Tommaso, quattordici, Francesco e Chiara, otto, e mia suocera Franca, l’età no, che c’è la privacy, mio figlio è dentro il micromondo della mia famiglia in quarantena in assoluto il più ligio alle regole, una sorta di piccolo nazista, ai miei occhi di anarchico, il famoso conto che il karma ti presenta, mi presenta, uno che, l’ho già raccontato, ha preferito farsi fare un taglio di capelli alla Giovanni Lindo Ferretti epoca CCCP dalla nonna, mia suocera, sarta e in quanto tale erroneamente considerata da lui una che con le forbici saprebbe tagliare anche capelli, errore evidente a noi che ci viviamo insieme, pur di non portare capelli un minimo lunghetti, e per lunghetti intendo la lunghezza della mia barba in un qualsiasi giorno dell’anno, figuriamoci se è mai andato in giro con la mascherina a bordo del suo skateboard, impensabile che abbia anche solo ipotizzato di fare tag o murales, lui che considera quelli con le bombolette, come i punkabbestia o in generale quelli non inquadrabili in gruppi paramilitari come la feccia della feccia, io la mascherina, quindi, prima quella nera da skater e writer di mio figlio Tommaso, valenza sanitaria pari al famoso fiore in bocca cantato prima da Battisti ne La canzone del sole, poi da Luca Carboni in Farfallina, poi quelle vere e proprie, mascherine che un’anima pia che mi ha letto su Facebook mentre lamentavo il fatto che, nonostante fossero considerate obbligatorie a Milano non se ne trovassero neanche al mercato nero, mascherine che un’anima pia mi ha spedito generosissimamente, al pari di un’altra anima pia che mi ha spedito, esattamente per le stesse ragioni, guanti monouso, vedi a scrivere e avere lettori?, la mascherina, in questi due mesi e rotti, l’avrò indossata poco più di dieci volte, cioè le volte che sono andato a fare la spesa, prima ogni quattro giorni, poi una volta alla settimana, infine ogni otto giorni, di più mi è fisicamente impossibile, disinteressato all’idea di uscire per uscire, figuriamoci se con la smania di scendere in strada con mascherina e guanti, manco fossi un serial killer.
Poco più di dieci volte che mi sono risultate tutte estremamente sgradevoli, perché con la mascherina si respira a fatica, non oso pensare il personale sanitario, perché si suda, perché poi non ci si può toccare la faccia coi guanti monouso per sistemarla, se no che cazzo la indossiamo a fare, perché poi si è scomodi e goffi in mezzo a altri che sono nelle tue medesime condizioni, il che invece che diventare il mezzo gaudio dello stupido detto sul mal comune, diventa ulteriore motivo di ostilità nello sguardo, di diffidenza, addirittura di odio malcelato dalla medesima mascherina.
L’ho indossata poco più di dieci volte, quindi, e se per uscire dovrò usarla sempre, credo, la mia asocialità sempre sbandierata con vanto, parlo di un sempre prima della pandemia, asocialità di facciata, posa di un personaggio cui stavo lavorando anche con un certo successo, la mia asocialità sempre sbandierata diventerà reale, fanculo l’aria aperta, fanculo la socialità, me ne resto in casa a scrivere.
Anche perché, prima forzatura narrativa, sempre che non ne abbiate già ravvisate abbastanza, usare la mascherina per stare in fila a fare la spesa, magari, è sopportabile, si sta lì in fila, per una, due ore, si respira a fatica provando a distrarsi usando lo smartphone che poi disinfetteremo con l’alcool a casa, ma non si deve fare tanto altro, ma provateci voi a fare il mio lavoro, cioè a relazionarsi con altri, spesso altri che provano a venderti costantemente qualcosa, quanto è bello un disco, quanto è sagace un pezzo, quanto è fondamentale un particolare pensiero, il tutto per mezzo, o meglio, per bocca di addetti stampa, discografici, promoter, artisti, soprattutto artisti, gente che è abituata a stare sul palco, o che dovrebbe essere abituata a stare sul palco, e che proprio a causa della pandemia si sta abituando a un mondo in cui stare sul palco sarà altra cosa, giuro che in queste settimane ho sentito a riguardo le soluzioni più disparate, dalla Netflix della cultura ipotizzata da Franceschini, roba che manco le comiche, all’idea di fare i concerti da seguire in auto, tipo drive-in, e vi immaginate uno stadio con dentro qualche centinaia, non di più, di monovolume e suv a sentire concerti, quelli seduti dietro che non vedono un cazzo, il caldo che ammazza la gente, perché se tieni l’aria condizionata accesa devi tenere anche il motore acceso, da noi mica ci sono le cabriolet come ai tempi dei cinema drive-in americani, per noi Drive-In è stato giusto un brutto programma che ha segnato, ricordiamocelo bene, l’inizio della fine, il tutto per bocca di artisti, dicevo, gente che è abituata a stare sul palco e quindi a parlare anche attraverso la fisicità, la mimica, e che con una mascherina in faccia perderebbe buona parte di quella capacità, diciamolo apertamente, spesso è più interessante starli a vedere mentre si pensano convincenti che starli a sentire, per non dire di come, in effetti, avere una mascherina cambi proprio la possibilità di parlare, si respira a fatica, l’ho detto, ma si parla ancora più a fatica, ben lo sappiamo quando proviamo a sentire le interviste fatte nei telegiornali, con le voci che sembrano passate da un filtro come quelle del professore in La casa di carta, serie che continuiamo a vedere, io e Marina, ma che non mi convince del tutto, o, e qui arriviamo al primo nodo narrativo, come quella di Dennis Hopper in Velluto blu, quando diceva “mammina, mammina” a una Isabella Rossellini affascinantissima nel suo essere sciatta, ma mai sciatta come poi sarebbe stata in Cuore selvaggio, una mascherina di plastica collegata a una bombola di ossigeno in bocca.
Ora, viviamo in giorni angoscianti, oscuri, apocalittici, parlare di David Lynch solo a questo punto, credo, denoti una qualche mia stanchezza, perché se è vero che a predire il Coronavirus e la conseguente pandemia è stato Soderbergh con Contagion, è cassazione che i due registi che sono i soli capaci di ipotizzare un mondo post Coronavirus siano Cronenbergh e Lynch, per motivi che, se li conoscete, non faticherete a intuire (se non li conoscete, beh, cazzi vostri, non ho tempo e voglia di star qui a spiegarvelo, impegnate la clausura rimasta per andarvi a vedere tutti i loro film, magari non lo capirete, ma sarete sufficientemente inquieti per affrontare il mondo là fuori).
Lynch è, credo di poter dire senza paura di essere smentito, il regista che più ha influenzato la mia scrittura, almeno la mia scrittura di quando iniziavo a scrivere e avevo bisogno dell’influenza di registi per trarre ispirazione, a volte al limite del plagio.
Ricordo perfettamente quanto la visione di Twin Peaks, all’epoca in cui arrivò in televisione, mi sconvolse, trovate visionarie regalate a piene mani, trame distorte a uso e consumo del regista, e di chi se no?, poesia visiva e narrativa come mai mi era capitato di vedere prima al cinema, figuriamoci dentro la televisione prima delle serie Tv per come le conosciamo da Lost in poi. Ma ricordo ancora di più la violenza subita, violenza salvifica, sia chiaro, come di chi ti pratica una tracheotomia mentre stai soffocando, per capirsi, quando con Marina, al Cinema, nello stesso periodo, per altro, ho visto Cuore selvaggio.
Il film che più di ogni altro, Pulp Fiction e Matrix, tanto per citarne due che in qualche modo hanno cambiato la grammatica del cinema tutto, e quindi anche della narrativa, pensate a quanti racconti o romanzi che di colpo sono iniziati un minuto prima della fine della storia, giocando di flasback, da lì in poi, non solo la mia idea di narrativa di genere, mi ha aperto gli occhi verso l’idea di una narrativa che andava a pescare sì nel genere, il noir nello specifico, lo strepitoso romanzo di Barry Gifford che racconta le gesta epiche e sghembe di Sailor e Lula a fare da canovaccio, ma mescolandolo con una idea precisa di arte alta, di visione, appunto.
Sono uscito dal cinema, all’epoca, con la netta sensazione di aver assistito non tanto a una epifania, anche quella, ovvio, ma più di aver preso parte a una iniziazione, anche io come il Sailor portato magistralmente sullo schermo da Nicholas Cage avrei cercato a lungo una giacca di pelle di serpente capace di rappresentare il simbolo della mia individualità e della mia fede nella libertà personale, anche io, da quel momento in poi, non credo la faccenda sia poi molto cambiata oggi che sono un ultracinquantenne padre di famiglia, ho provato a mordere la vita con voluttà, Marina la mia Lula, la mia Lula a cui anche io, in passato, mi sono trovato metaforicamente a cantare Love me Tender di Elvis in piedi su una auto ferma in colonna, il viso pesto di chi le ha prese di santa ragione, lei sa di cosa parlo, io pure, forse non l’ho fatto abbastanza, a pensarci bene.
Un film sconvolgente, per me, Cuore Selvaggio, al punto che ricordo ancora oggi il giorno in cui ho trovato nella bancarella dei libri di Piazza Cavour il libro edito da Frassinelli, introvabile in libreria per motivi che mi sfuggono, di Barry Gifford, scrittore che per qualche anno ho seguito con brama, mi sono letto tutto quello che ha scritto, più e più volte, del resto dal suo Storie selvagge Lynch, diventato il mio regista preferito, poco dopo avrebbe tratto l’omonimo film, Barry Gifford, autore che nel mio immaginario, per essere concreti, e nella mia libreria, sta a fianco di quelli di Sam Shepard, scrittore, commediografo, attore, regista, uno che ha fatto il Rolling Thunder Revue Tour con Bob Dylan, Allen Ginsberg, Joan Baez e compagnia bella, uno che ha sposato Jessica Lange, Dio quanta bellezza tutta in una donna, e del resto quanta bellezza tutta in un uomo, Sam Shepard, uno che ha scritto Motel Chronicle, libro che ha ispirato Wim Wenders per il suo Paris, Texas, film che ci ha anche regalato quel capolavoro di colonna sonora tutto slide e deserto di Ry Cooder, e a fianco di Willy Vlautin, autore di un altro libro che, al pari di Cuore Selvaggio, seppur assai meno eversivo di Cuore Selvaggio, e di Motel Chronicle di Sam Shepard, ci regala uno spaccato del white trash americano, e quindi della deriva tardo capitalista dell’occidente, Motel file, al pari di tutti gli altri romanzi usciti in Italia, penso a Verso sud, a La ballata di Charley Thompson, e ai due libri usciti per la pregevolissima casa editrice Jimenez, Io sarò qualcuno e The Free, un autore incredibilmente capace di fermare i personaggi sulla pagina, dote rara, rarissima, per altro uscito a dopo aver già fermato tanti personaggi e raccontate tante storie con la sua band, quei Richmond Fontaine che a fronte della sua scoperta come narratore, ci mancano in maniera lancinante, oggi in clausura come ieri in libertà, tre autori, Barry Gifford, Sam Shepard e Willy Vlautin, e so che sto tornando a nascondermi dentro le pagine rassicuranti, sto praticando una metafora ardita, perché le pagine di questi autori tutto fanno fuorché rassicurarci, so che sto tornando a nascondermi dentro le pagine rassicuranti degli scrittori che amo, ma la Fase 2 è lì a portata di mano, converrete che l’incertezza di quel che ne sarà di noi quando torneremo in strada non è esattamente facile da affrontare.
Sconvolto da Cuore Selvaggio, quindi, sono andato a recuperare tutto quel che potevo su David Lynch, considerate che era un’epoca pre-internet, che i film li vedevamo ancora al cinema, o al massimo andando a prendere videocassette nelle rarissime videoteche, ancora non esisteva Blockbuster, guarda che oggetto di modernariato che ti sono andato a pescare, e che da noi di videoteca, in centro in Ancona, ce n’era solo una, Venere video, e già dal nome si intuiva che tipo di video la gente ci andava a cercare, e fa sorridere, oggi, in epoca di Youporn e Pornhub, pensare che la gente andava a prendere i film a luci rosse, all’epoca li chiamavano così, e per gente intendevo la gente altoborghese, perché solo loro inizialmente avevano i videoregistratori e infatti Venere Video era nel quartiere nel quale vivevo anche io, già vi ho detto di come ci fossi capitato a causa del terremoto del 1972, non per meriti sociali, lasciatemi usare una espressione sarcastica, altaborghesia che si lasciava andare a pruderie, come nella trama di Tempesta di ghiaccio di Rick Moody, altro gigante dentro le cui pagine mi sono rifugiato nei giorni scorsi, fa sorridere, oggi, in epoca di Youporn e Pornhub, pensare che la gente andava a prendere i film a luci rosse, all’epoca li chiamavano così, non volendo comparire tra gli spettatori dei cinema a luci rosse, lì ci andava il popolino, e per gente intendevo la gente altoborghese, da colui che di lì a breve sarebbe diventato il sagrestano della Cattedrale di Ancona, neanche Edgar Lee Masters sarebbe riuscito a immaginare una deriva del genere, neanche David Lynch stesso, e io, visto Cuore Selvaggio, sono andato a cercare quei film, anche se ancora in casa avevamo da poco sostituito una televisione in bianco e nero, ricordo perfettamente la vergogna che avevo provato con Marina quando lei, al telefono, da poco fidanzati, era il 1988, mi diceva che avrebbe voluto farsi i capelli dello stesso colore di Helena Bohnam Carter in Camera con vista, appena passato in tv, io a dirle, a Marina, che non avevo idea di come li avesse, i capelli, Helena Bohnam Carter, perché avevo la tv in bianco e nero, tv in bianco e nero che era uscita di scena proprio in quel 1990, perché c’erano i mondiali di Italia 90 e mio padre voleva vederli a colori, distinguendo quindi le maglie delle squadre, e con la prima tv a colori era entrata in casa anche un videoregistratore, videoregistratore col quale avrei quindi potuto vedere i film di Lynch trovati da Venere Video, Eraserhead, confesso, non particolarmente amato, The Elephant Man, Dune e soprattutto Velluto Blu, il Velluto Blu con il Kyle MacLachlan che interpretava nel mentre anche l’agente Cooper di Twin Peaks, perché Twin Peaks era contemporaneo a Cuore Selvaggio, oltre che la già citata Isabella Rossellini e a un gigantesco e inquietante Dennis Hopper, oltre che la solita, vien da dire, Laura Dern, la Lula di Cuore Selvaggio, attrice feticcio insieme alla Rosselini del primo Lynch, Isabella Rossellini, così, per parlare, che era anche la compagna di Lynch, e Dio quanto ho amato la foto dei due, lei bellissima, lui con un maglione col collo alto che copre il viso lasciando scoperto solo il noto ciuffo bianco di capelli, Isabella Rossellini cui Dennis Hopper, il crudele Frank Booth di Velluto Blu, si rivolge chiamandola “mammina” mentre la violenta, un “mammina” soffocato attraverso una mascherina che lo collega a una bombola di ossigeno.
Ecco, dovessi pensare a un regista in grado di raccontarci il mondo inquieto che ci attende là fuori, in vista della Fase 2, penserei proprio a quel David Lynch lì, prima dei deliri quali Mullholland Drive, film che ho a mia volta adorato, a-do-ra-to, e Inland Empire, per capirsi, o della terza famigerata serie di Twin Peaks, che per la cronaca ho visto con la stessa voluttà con cui avevo visto le prime due, un mondo fatto di nani che parlano al contrario, di mostri che ci vivono accanto, di violenza e sesso ma anche di grandi squarci di poesia, e su tutto la musica, perché Lynch, musicista, ha sempre dato alla musica uno spazio fondamentale nei suoi film, si pensi al Chris Isaac di Wicked Game, il videoclip in bianco e nero con Helena Christensen è una delle cose più erotiche vista in quegli anni, al brano che proprio a Velluto blu regala il titolo, la Blue Velvet di Bobby Vinton, e soprattutto alle colonne sonore di Badalamenti, la canzone interpretata da Julie Cruise, Falling, ricordate che vi avevo citato questo nome non so quante parole fa?, Falling, ancora oggi capace di evocare angoscia come fossimo proprio lì, dentro la coltre di nebbia del paese natale di Laura Palmer e di quel mostro di, spoiler, suo padre.
Ora, amo forzare la mano, amo andare lungo, ma forse oggi sto esagerando.
A questo punto, passato dal dover uscire con la mascherina a parlare di David Lynch, per mezzo dell’artificio regalatomi da Dennis Hopper in Velluto Blu, ho davvero davanti un’autostrada, potrei infatti perdermi, Dio quanto amo perdermi, raccontandovi di quando, nel 2000, io e Cristina Donà siamo sì andati alla deriva per gli USA sulle orme del Bruce Springsteen di The River, già ve ne ho fatto cenno, ma in realtà con David Lynch come bussola, entrambi lo amavamo molto, con tanto di citazione finale, parlo del libro God Less America che poi avrebbe raccontato quel viaggio, con tanto di citazione finale della frase conclusiva del suo film Una storia vera, con per altro un cameo dell’Harry Dean Stenton protagonista di Paris, Texas, ma soprattutto con ultima tappa del viaggio nella Twin Peaks di San Francisco, una Twin Peaks sbagliata, certo, non era quella la location della serie di Lynch, ma dichiarazione d’amore senza se e senza ma.
Potrei, ma sono già oltre quattromila le parole che ho scritto oggi, troppe.
Per cui passo a raccontarvi, ancora non abbiamo finito, di quando sono andato a Arezzo col mio amico Corrado, oggi professore di economia in Australia, per vedere il concerto di Saul Williams a Arezzo Wave. Era da poco uscito Amethyst Rock Star, suo disco d’esordio che avevo ricevuto in redazione a Tutto Musica, e mi ero letteralmente infoiato nell’ascoltarlo. Lui, quello che aveva vinto il Sundance Festival col film Slam, incentrato sul mondo della slam poetry, mischiava rock, rap, black music, crossover, tutto il meglio di quegli anni. Erano anni in cui il crossover, il mix tra rock bianco e black music, stavano animando la scena alternativa, penso ai Living Colour degli esploratori Vernon Reid e Corey Golver, penso ai Red Hot Chili Peppers, ai Fishobone, ai Rage Against the Machine, George Clinton con le sue astronavi Funkadelic e Parlamient e Sly Stone con la sua famiglia a fare da fari, ma Saul Williams era altro, autorevole, alto, poeticamente eversivo, lo ritenevo e ancora ritengo un gigante, il suo The Inevitable Rise and Liberation of Niggy Tardust, evidente risposta allo Ziggy Stardust di Bowie, album messo direttamente in free download come chiara risposta a un mercato corrotto da Trent Reznor dei Nine Inch Nails, band solita regalare la propria musica nei modi più disparati, come quando lasciavano chiavette con interi album inediti nei bagni dei locali dove tenevano concerti o, più recentemente, quando hanno regalato due interi album, Ghosts V e Ghost VI, proprio durante il Coronavirus, Trent Reznor che di quell’album era il produttore, o i recenti MartyLoserKing e Encrypted & Vulnerable, tutti con la fantascienza a fare da sfondo, fissi nella mia autoradio. Corrado, che era ancora in Ancona ma stava già iniziando a guardare al resto del mondo, si era proposto di accompagnarmi, Marina incinta di Lucia era rimasta giustamente a casa, ultimo concerto visto prima del parto quello dei 24 Grana al Castello di Falconara.
A aprire quel concerto, non erano anni di internet, ancora, le notizie giravano più a fatica, c’era proprio Julie Cruise, quella di Twin Peaks, lo avremmo scoperto una volta arrivati sul posto.
Se il concerto di Saul Williams si sarebbe dimostrato gigantesco, epico, una capacità di prendersi un pubblico che in buona parte manco sapeva chi fosse, incredibile, molti accorsi lì per sentire dopo di lui i St. Germaine, formazione che a me faceva cagare, quella di Julie Cruise era stata straniante, esattamente come i film grazie ai quali l’avevo conosciuta, lei truccata troppo, come una baldracca, perché questa era chiaramente la sua volontà, quel che voleva comunicarci, l’aria di chi è lì per sbaglio, fintamente ubriaca, stonata non ne senso di incapace di suonare, ma proprio di una che si è stonata, anche quella finzione, eterea, certamente, ma anche carnalmente fisica. Un’esperienza che, a distanza di diciannove anni, ricordo perfettamente, al punto che, mentre con Saul Williams due chiacchiere a fine concerto ce le sono andate a fare, ho una foto con lui che conservo da qualche parte, con lei, Julie Cruise, no, manco fosse necessaria la mascherina e la bombola di ossigeno di Dennis Hopper per avvicinarla.