Il primo album degli Iron Maiden è sì il disco d’esordio di una band che ora si sposta a bordo di un velivolo brandizzato, è sì la prima prova discografica che oggi compie 40 anni ed è sì, soprattutto, qualcosa che si rinnova ad ogni riascolto.
Il punk e il post punk nel Regno Unito
Quell’Iron Maiden che uscì il 14 aprile 1980 era anche la storia di una vittoria del metal sul punk: le case discografiche avevano scelto di dare priorità di investimento alla scena punk che specialmente nel Regno Unito aveva scatenato una vera e propria bomba musicale e sociale. I Sex Pistols erano ormai finiti dopo aver registrato solamente un album in studio, ma il mercato aveva trovato linfa nelle prime ondate post punk che nei Cure, nei Joy Division e in tanti altri nomi che di lì a poco sarebbero diventati più che autorevoli.
La curva del punk aveva inciampato alla grande, ma rimaneva stabile. Per questo gli Iron Maiden del bassista e fondatore Steve Harris dovettero più volte fare i conti con del ghiaccio sul naso per ovviare alle contusioni provocate dalle porte in faccia sbattute dai discografici.
The Soundhouse Tapes
Tuttavia i cinque ragazzi londinesi ci avevano già provato ed era andata benissimo: nel 1979 i tre brani autoprodotti della demo The Soundhouse Tapes avevano fatto sì che le 5000 copie andassero a ruba in poco tempo. Tre brani, dicevamo, tra i quali Invasion che era una versione embrionale di Invaders, ma soprattutto tra i quali si trovavano Iron Maiden e Prowler destinate a far parte del disco d’esordio.
Il primo album degli Iron Maiden è anche la storia di Paul Di’Anno: voce potente, frontman carismatico che in sé portava stratificazioni punk, furia rock’n’roll e quel tocco di epicità che dal 1982 Bruce Dickinson avrebbe reso peculiare.
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- 03/06/2013 (Publication Date) - Emi (Publisher)
Il primo album degli Iron Maiden
Vinta la battaglia contro l’ostinazione dei discografici a voler fare business solamente con le band punk, gli Iron Maiden furono così convincenti che il loro primo disco uscì sotto contratto con la EMI. 9 tracce per 9 monumenti, si può dire, perché Iron Maiden degli Iron Maiden ancora oggi è un biglietto da visita vincente.
Il disco parte col botto: Prowler è la corsa, un calcio dato sulla porta per entrare nell’abitato con un po’ di sana ignoranza borchiata. Le chitarre di Dave Murray e Dennis Stratton marciano dritte e quel riff filtrato con il wah-wah ci regala ancora un motivetto orecchiabile e martellante.
Sanctuary è il brano più rock’n’roll del disco e Running Free è ancora oggi un degno seguito. C’è, però, quella parte centrale, un trono sonoro sul quale spadroneggiano Phantom Of The Opera e Transylvania. La prima è una deliziosa suite che sa essere incisiva nell’intro, minacciosa nello special, sinfonica nell’assolo e soffocante in quelle terzine introdotte dal basso di Harris.
La seconda è uno strumentale espressionista: gli Iron Maiden cavalcano su un riff ciclico, danzante e ossessivo mentre il rullante di Burr esplode e schiaffeggia. Memorabili tutte, anche le due ballate Remember Tomorrow e Strange World e Charlotte The Harlot insieme al brano di chiusura Iron Maiden, manifesto autoironico e autoreferenziale.
Se da una parte gli Iron Maiden subivano il fascino del punk – diciamolo: è facile immaginare Sanctuary eseguita dai Clash – dall’altra già dettavano legge. Il primo album degli Iron Maiden è un degno manifesto di una band che non cambiò stoffa nemmeno quando Di’Anno uscì di scena, spianando la strada a Bruce Dickinson, che comunque diede a ragazzi londinesi il timbro che meritavano e l’epicità che ricercavano.