Ho l’impressione che prima o poi dovremo tutti quanti fare i conti col fatto che, volenti o nolenti, ci stiamo stancamente abituando, rassegnatamente abituando, aggiungerei, al fatto di stare isolati, lontani.
Distanti ma vicini, per dire, è uno slogan che già la prima volta che l’ho sentito mi ha fatto rizzare i peli sul collo, e io ho i capelli lunghi, fino alle spalle, i peli sul collo mi si rizzano a fatica,mi ha fatto rizzare i peli sul collo al pari di quando, erano gli anni Ottanta, la fine degli anni Ottanta, credo, al pari di quando in tv ha cominciato a circolare quella pubblicità progresso che parlava di AIDS, che cominciava a parlare di AIDS, perché all’epoca se ne era sentito davvero parlare poco e niente, ricorderete, quella pubblicità progresso in cui c’era quella musica di synth insistente e quell’alone viola che circondava le persone contagiate, alone che passava di persone in persona, come quando noi bambini si giocava a “Cigo”, credo che oggi lo chiamino meno fantasiosamente “ce l’hai”, un alone viola che passava di persona in persona, bastava sfiorarsi, un po’ come capita di vedere adesso in quel video che ci spiega l’empatia, con il tipo empatico che si prende il nero di tutti quelli tristi che incontra, e ai quali stringe empaticamente le mani, finendone poi ucciso, l’empatia come l’AIDS, pensa te come ci siamo ridotti, l’empatia come l’AIDS, the big disease with a little name, cantava Prince in Sign O’ The Times, agghiacciante, quella pubblicità progresso sull’AIDS, come del resto era agghiacciante il video della canzone che, vado a memoria, Neneh Cherry, Dio che bella che era e è Neneh Cherry, fece per l’antologia di brani di Cole Porter, Red Hot + Blue, una cover di I’ve Got You Under My Skin, con quasi sempre lei in primo piano, la bocca sensualissima, tutto in tinte blue, rossetto compreso, e poi il ballerino, muscolo, eccessivamente muscoloso, a ballare dentro una tuta di lattice che lo ricopriva dalla testa ai piedi, senza neanche lasciare lo spazio per gli occhi, quale metafora più potente che parlare di AIDS, di un virus subdolo che ti entra sottopelle, quindi, che paragonarlo all’amore o all’oggetto dell’amore, e ricordiamo quanto l’AIDS sia stato a lungo identificato come il virus che attraverso l’amore uccideva, lì sottopelle, appunto, grande antologia, Red Hot + Blue, con gli U2, per la prima volta dalle parti dei suoni che avrebbero caratterizzato lavori come Achtung Baby, Zooropa e in seguito Pop, a fare Night and Day, un altro vero capolavoro, da brividi, ma anche i Neville Brothers, Iggy Pop con Debbie Harry, Sinead O’ Connor, Annie Lennox, David Byrne, Tom Waits e tanti altri, andatevela a riascoltare, tanto di tempo ne abbiamo, ecco, distanti ma vicini mi ha fatto sin da subito quell’effetto inquietante lì, solo che nel caso della pubblicità progresso, che se poi non sbaglio era quello del claim “se lo conosci lo eviti”, poi divenuto slogan per prendere per il culo chi si ritiene da allontanare dalle nostre vite, tipo i rompicoglioni, pensa te, e nel caso del video di Neneh Cherry, Dio che bella che era e è Neneh Cherry, l’inquietudine era voluta, di più, era proprio la parte portante del messaggio che si voleva veicolare, nel caso di distanti ma vicini, invece, l’inquietudine è quella mia personale, immagino, perché chi ha pensato quello slogan, come chi ha adottato il nelsiano Andrà tutto bene, ora diventato anche titolo di mille altre canzoni, ultima in ordine di apparizione, a proposito di inquietudine, di inquietudine involontaria, l’Andrà Tutto Bene firmata e cantata da Tommaso Paradiso con Elisa, qualcuno si ricorda più della popstar in salsa Jerry Calà Tommaso Paradiso?, chi ha pensato a questi slogan voleva trovare un modo per farci passare la nottata nella maniera meno dolorosa possibile, cercando il bello dove il bello non c’è, cioè dicendoci che anche a distanza possiamo sentirci vicini, vedi quei social che per anni ci hanno detto essere il male, per anni abbiamo detto essere il male, io no, a dire il vero, che sui social mi ci trovo bene, ci sto spesso, non solo per lavoro, specie su Facebook, ma questa era la tendenza, quella che si doveva adottare per buon senso, prendere le distanze dai social, dimostrarsi superiori a quel voler star lì, narcisi a parlarsi addosso, i social sono il male, questo si diceva prima di dirsi distanti ma vicini, avete presente tutti le foto dei vagoni della metropolitana con tutti i viaggiatori presenti, chi seduto e chi in piedi, ammassati, con lo sguardo fisso sul display dello smartphone, popolo bue abbruttito dalla rete, i social sono il male, e avete presente tutti la foto della scolaresca al museo che invece che guardare il dipinto sulla parete del museo, non ricordo quale, ma ricordo bene l’immagine della foto della scolaresca in questione, potenza dei meme, la scolaresca tutta voltata di spalle all’opera, gli sguardi altrettanto fissi sugli smartphone, rete che ci dividi e ci rendi succubi, ignoranti, capre, social che ci illudono di essere connessi con gli altri, vedi la parola amicizia adottata da Facebook, vedi l’illusorietà dei rapporti a distanza, vedi, ma che in realtà ci isola e ci divide, ognuno dentro casa propria, come dentro la tuta di lattice del ballerino del video di Neneh Cherry, Dio che bella che era e è Neneh Cherry, un trucco dei grandi della terra, quelli che ci governano in maniera neanche troppo oculata, Bilderberg a Cernobbio, Henry Kissinger ancora vivo a pontificare sulle pagine del Corriere, a novantasei anni, l’erba cattiva non si estirpa neanche col Napalm, un trucco dei grandi della terra, per capirsi, per ammazzare la piazza, il dissenso, l’eversione, ma anche solo il poter dire la propria, tutti abbiamo visto e amato V per Vendetta, tutti abbiamo indossato, almeno in animo nostro, la maschera di Guy Fawkes, salvo poi tornare con lo sguardo al nostro smartphone, a scendere in piazza sui social, mica per davvero, la protesta virtuale, che più che virtuale era effimera, anche quando in piazza ci andava davvero, penso ai milioni scesi con Greta Thumberg, i venerdì del futuro, gente vera in piazze vere, da fotografare con lo smartphone e prendere per il culo sui social, sempre lì, distanti e basta, e ora, che in piazza non ci si può andare, che le gite delle scolaresche al museo sono un sogno lontano, tutti a dire come i social ci uniscano, siano stati in qualche modo la nostra salvaguardia mentale, tutti connessi e vicini, fortuna che c’è Facebook, fortuna le dirette di Instagram, toh, pure fortuna che c’è Tik Tok, anche se io Tik Tok proprio no, già fatico a capire il senso di Instagram, sono un uomo del Novecento, per dirla con Paolo Benvegnù, ho conosciuto gente nata nell’Ottocento, i nostri nonni, Tik Tok proprio non ce la faccio, e fortuna la rete, che ci tiene informati, che ci permette di sapere sempre cosa succede nel mondo, volendo anche ci mette in circolo tutte quelle puttanate lì, le bufale, le fake news, che mica ho mai capito perché si dice che una notizia sbagliata è una fake news, al plurale, un po’ come quella stronzata dello smart working, che all’estero chiamano work from home e da noi smart working, anglofoni pret-a-porter, gente che a proposito di Bilderberg e di Cerbobbio dice “summit” con la pronuncia inglese, invence che alla latina, popolo ignorante, ma connesso, solidale, vicino, ecco, sì, distanti ma vicini, Dio salvi Mark Zuckerberg, Dio quanto era e è bella Neneh Cherry.
Ho l’impressione che prima o poi dovremo tutti quanti fare i conti col fatto che, volenti o nolenti, ci stiamo stancamente abituando, rassegnatamente abituando, aggiungerei, al fatto di stare lontani, quindi, ribadisco. Non che ci abbiano lasciato la scelta, intendiamoci, stiamo a casa, da cinquanta giorni, chi più chi meno, siamo ligi al dovere, la stragrande maggioranza delle persone, anche oggi che è Pasquetta, siamo in una sorta di stato di polizia, non solo fisico, le ronde, i posti di blocco, i proclami del Viminale, le auto dei vigili con gli altoparlati, i sensi di colpa istillati scientificamente da chi le colpe ce le ha davvero, ma anche mentale, perché quando si è fragile, e noi tutti siamo fragili, ci mancherebbe altro, siamo in casa da cinquanta giorni, cinquanta cazzo, chi più chi meno, quando si è fragili sentirsi dire reiteratamente che si è colpevoli, che se il virus è ancora qui, con le centinaia di morti che continuano a occupare i bollettini del commercialista Borrelli, a capo della protezione civile, un commercialista, capito?, è colpa di chi va in giro, non degli ospedali riempiti di malati che non sapevano fossero malati, delle fabbriche lasciate aperte, è colpa del runner scemo della Darsena, di quello che ha portato a spasso il bambino al parchetto, figurati se ha qualche responsabilità chi riempiva il Pio Albergo Trivulzio, la Baggina per i milanesi, figurati se ha qualche responsabilità chi si è rimpallato la decisione di chiudere due nuovi focolai, Alzano Lombardo e Nembro, il bresciano, siamo noi che dobbiamo fare i bravi, noi che dobbiamo stare a casa, noi che in effetti stiamo a casa, altre due settimane, e poi altre due settimane, e poi altre due settimane, le Ferrovie dello stato che hanno già improntato lo smart working, perché da noi è così che lo chiamiamo il lavoro da casa, fino a fine luglio, gli assessori all’struzione delle regioni che restano basiti per l’abbandono della riunione plenaria da parte della ministra Azzolina, come siamo caduti in basso, la ministra Azzolina, riunione plenaria indetta per ipotizzare un protocollo per la didattica a distanza anche per l’inizio del nuovo anno scolastico, le aziende grandi, le multinazionali, che cominciano a ragionare su dettagli, importanti, certo, come le poltrone ergonomiche per i propri dipendenti che si sono ritrovati a lavorare a casa, ma a noi continuano a dire, sta per iniziare la Fase 2, altre due settimane e inizi, altre due settimane e inizia, altre due settimane e inizia. E invece è iniziata la primavera, è arrivata la Pasqua, è arrivata la Pasquetta, è arrivato il primo caldo, gli alberi verdeggiano, i fiori sbocciano, i corpi reclamano il proprio diritto a scoprirsi.
Eh sì, perché questo è il momento dell’anno, anche più dell’estate, nel quale i corpi cominciano a sbocciare, a mostrarsi, a uscire, metaforicamente, dal letargo dentro il quale si erano infilati.
Attenzione, non voglio tirare fuori il discorso degli ormoni che entrano in circolo, non mi sembra il caso, andrei su un crinale scosceso, pericoloso, difficile da gestire, umido, potrei dire giocando la carta del doppio senso, ma sarebbe appunto un passo falso, imperdonabile, arrivato fin qui, un passo falso specie in giorni di confusione e di clausura, ma parlare proprio di corpi che, complice il caldo che aumenta, la primavera che incombe, gli alberi che si rifanno verdi, i fiori che sbocciano, già tutto detto, i corpi che di colpo cominciano a non poterne più dello stare dentro i vestiti pesanti, i cappotti, le giacche a vento, le sciarpe, anche se oggi le mascherine fanno ormai parte del nostro look al naturale, ce lo stanno ripetendo da giorni, evocando un futuro fantascientifico, forse distopico, con noi a girare anche per casa con le mascherine, credo che l’assessore Gallera lo abbia proprio detto così, parola per parola, un po’ come per anni abbiamo visto fare proprio i cinesi in visita nelle nostre città, tutti con le mascherine, e sai le risate che ci siamo fatti nel guardarli girare per le nostre città così, che che cazzo avranno mai avuto da girare con le mascherine mica si capisce, che noi mica siamo inquinati come le nuove megalopoli cinesi, quelle che ci hanno detto sorgono come funghi, città di decine di milioni di persone lì, nel giro di pochi giorni di duro lavoro, un po’ come poi abbiamo visto fare con gli ospedale per il Coronavirus, e anche lì gli sguardi scettici, che noi non abbiamo bisogno di costruirli di corsa, questo l’ha detto Burioni, ricordiamocelo bene, noi gli ospedali li costruiamo per tempo e si è visto come li costruiamo per tempo, gli ospedali, e come poi abbiamo dovuto prendere la rincorsa, guardando proprio alla Cina, evocando un lock down cinese, da noi irrealizzabile, non siamo mica una dittatura, tutti in casa e l’esercito a portare un sacco di riso a famiglia, e auspicando ospedali che spuntassero come funghi, dopo un giorno di pioggia, uno sì spuntato velocemente, quello degli alpini di Bergamo, complici gli ultras dell’Atalanta, e si decidessero a dare all’Atalanta lo scudetto ad honorem, e che cazzo, calciatori di merda che reclamano i loro stipendi tagliati dalle loro squadre di merda, calciatori scappati nonostante la quarantena, solo Zlatan a dire cose sensate, viva gli alpini e gli ultras dell’Atalanta, mai avrei pensato di doverlo dire, mentre gli altri, quelli privati, dalla terapia intensiva del San Raffaele sponsored by Fedez e Ferragni al megaospedale della Fiera, sponsored by Berlusconi e gestito da Bertolaso, lo stesso Bertolaso nel mentre ricoverato al San Raffaele causa Coronavirus, giusto il tempo di arrivare nelle mie Marche, regione già martoriata dall’ego narcisistico di Conte, che ha riaperto le scuole impugnando la decisione autoritaria di Ceriscioli, il governatore locale, che aveva dichiarato zona rossa contravvenendo alle direttive del governo, azzeccandoci però parecchio, visto che la provincia di Pesaro, la sola chiusa da Conte, è confinante con quella di Ancona e molti studenti di alcune scuole di Senigallia, per dire, sono residenti a Pesaro, focolaio locale, giusto il tempo di arrivare nelle Marche e scoprire di avere il Coronavirus, magari dopo aver contagiato mezza giunta regionale, lo scopriremo nei prossimi giorni, molto più lenti e con molti meno posti, vedi tu che ridicoli i cinesi con i loro ospedali dai mille posti e con le loro mascherine sempre in faccia, anche in tempi pre-Coronavirus, corpi che di colpo cominciano a non poterne più dello stare dentro i vestiti pesanti, i cappotti, le giacche a vento, le sciarpe, anche se oggi le mascherine fanno ormai parte del nostro look al naturale, ce lo stanno ripetendo da giorni, magari su corpi nudi, seminudi, abbiamo letto tutti gli articoli di Dagospia con le pornostar e le influencer a spiegare come fare l’amore in tempi di Coronavirus, povere dementi che non sono altro, loro a pensare di essere utili in tempi in cui ci sarebbero utili solo certezze concrete, indicazioni precisi, la primavera al tempo del Coronavirus, l’estate al tempo del Coronavirus, chissà che futuro prossimo ci attende.
No future, mi verrebbe da dire, omaggiando il punk, anche se l’immagine del Johnny Rotten, al secol John Lydon obeso e schizzato visto nelle quattro puntate del documentario Punk, prodotto da Iggy Pop, ripeto, se non ve lo vedete siete davvero dei pazzi furiosi, un po’ mi fa tentennare, perché non è esattamente il tipo con il quale vorrei essere identificato, o forse invece sì, ha ragione lui, si fottano tutti, me compreso.
No future, quindi, questo verrebbe da dire.
Solo l’oggi.
Solo l’adesso.
E l’adesso, oggi, non è che sia esattamente esaltante, non credo sia necessario sottolinearlo proprio oggi che sono cinquanta giorni da quando abbiamo preso baracca e burattini, metaforicamente, e ci siamo chiusi in casa in quella che è la nostra ormai consueta quarantena, il nostro consueto autoisolamento, la nostra consueta clausura, questa roba qui che è la nostra merdosa vita di tutti i giorni. L’oggi, appunto, hic et nunc, mi sembra si dicesse ai tempi in cui si studiava il latino, in un passato remoto in cui una pandemia la potevamo al limite includere nei libri di storia, non certo nelle pagine di cronaca, la peste, il colera.
Lo vedo dai balconi di casa mia, perché fortunatamente ho diversi balconi, stare in casa prevede, da adesso, anche star lì, sui balconi, non a cantare, non l’ho mai fatto, e neanche a battere le mani, quello l’ho fatto, ma è stata fragilità emotiva, immagino, ma a guardare il mondo, a respirare aria che adesso è assai più respirabile a Milano, e so che suona agghiacciante dirlo mentre Milano, appunto, e la Lombardia tutta, certo anche il resto d’Italia, ma soprattutto la Lombardia, è sotto attacco di un virus che proprio nel non poter respirare, nell’asfissiarsi, ha la sua caratteristica più dolorosa e letale, per respirare, quindi, e per vedere gli altri, dove per altri si intende il resto del mondo che non siano i sei altri componenti della mia famiglia, Marina, mia moglie, i nostri quattro figli, Lucia, Tommaso, Francesco e Chiara, e mia suocera Franca.
Sì, dai balconi di casa mia posso vedere il mondo, o almeno quella porzione di mondo che da questi balconi è visibile, su tre lati, una piazza e una lunga via, da una parte, un’altra strada e diversi cortili, dagli altri lati, tanti altri balconi, terrazzi, finestre.
Mi sento, a volte, spesso ma sempre meno spesso, perché questa condizione di chi guarda il mondo da casa ormai sta diventando naturale, siamo uomini che si adattano facilmente alle nuove condizioni, evidentemente, Darwin suca, mi sento, a volte, spesso ma sempre meno spesso, come il James Stewart de La finestra sul cortile, già ho citato questo personaggio cinematografico, solo che non mi affaccio per studiare le mosse dei miei vicini con morbosa curiosità, finendo per scoprire omicidi, spero, ma più per la necessità di non sentirmi solo, di non sentirci soli.
E dai balconi di casa mia, io non ho praticamente finestre, solo balconi, vedo altra gente che come me, come noi, comincia a non poterne più di stare al chiuso, e non parlo tanto del chiuso delle case, di quello ho già detto anche troppo, ma del chiuso dei vestiti pesanti, invernali, prima o poi toccherà pure pensare a fare il cambio degli armadi, ho appena realizzato.
Perché questo è il momento, sarebbe il momento, in cui si comincia a andare in giro meno vestiti, e visto che vivo a Milano è noto di come la primavera comporti di colpo indossare infradito e parei, esagero, uso il paradosso come arte retorica, tanto quanto in autunno si passi da detti infradito e parei al montone e ai doposci. Con l’incognita, certo, ma non voglio mettere altra carne al fuoco, di carne al fuoco ce n’è pure troppa, se sia pericoloso mettersi in fila al supermercato con la mascherina, certo, i guanti monouso, anche, ma le braccia e le gambe scoperte, poi che dovremo fare, una doccia con acqua bollente che dura quanto?, le bracci e le gambe scoperte, i piedi scoperti.
Ecco, i piedi scoperti, non me ne voglia Andrea Scanzi, che nel mentre leggo è troppo impegnato a genuflettersi ai potenti di turno, e lungi da me il citare il suo famoso video in cui dava a chi stava in casa dei coglioni rincoglioniti, tutti possono sbagliare, figuriamoci se non può sbagliare uno tutto intento a guardarsi l’ombelico, troppo impegnato a guardarsi l’ombelico e a genuflettersi ai potenti di turno per poter leggere quello che scrivo, ma visto mai, i piedi, dicevo, è l’esatto momento in cui cominciano a spuntare i primi piedi quello che, credo, mi mancherà più di questo periodo strano, assurdo surreale, e anche in questo momento sto ovviamente praticando un paradosso, seguitemi, provate a non essere così terra terra.
Perché in primavera si scoprono le braccia, a volte le gambe, spesso le gambe, si vedono le scollature, parlo da uomo, ma da uomo che non ha mai provato particolare attrazione per le scollature, credo di averlo già detto, ci ho anche scritto degli articoli, a riguardo, su come nella eterna gara tra tette e culi, giocavo la carta del maschilista che si appigli a inventati studi scientifici sul rapporto tra tette e culi e intelligenza, li avete letti tutti, io ho sempre scelto i culi, ma non è di tette e culi, quindi di scollature, che sto parlando, perché in primavera si scoprono le braccia, a volte le gambe, spesso le gambe, si vedono le scollature, parlo da uomo, ma si scoprono anche i piedi, e in quello scoprire di piedi, credo, ci sia una sorta di ritorno a una primordialità, l’idea dei piedi che poi toccano le rocce e i sassi, al mare, la sabbia per tutti quelli che intendono il mare in quel modo barbaro lì, di ritorno alla natura, anche in città, di riscoperta del nostro essere uomini dentro un pianeta che abbiamo ricoperto di asfalto e cemento, e lo so che sembro Celentano sotto trip, mi scuso, ma sono cinquanta giorni che sto in casa.
Non vedrò un fiorire di infradito e di piedi che cercano la luce, quest’anno, magari mi rimetterò a leggere il grande classico L’adorazione del piede della mia amica del cuore Berarda Del Vecchio, proprio per quel libro ci siamo conosciuti e siamo diventati amici del cuore, male non farà di sicuro, libro che proprio della centralità dei piedi nel nostro immaginario parla, leggetelo e capirete, non vedrò un fiorire di infradito e di piedi che cercano la luce, quest’anno, qui dai miei balconi, al limite di ciabatte, che però non vedo, ma sto già iniziando a vedere tanta e tanta gente che prende la forma di questa clausura primaverile, come può, chi spostando la scrivania alla quale studia o lavora davanti alla finestra dove batte più sole, chi spostandosi in altri balconi e altre terrazze, e poi vedo, siamo a Milano, non dimentichiamolo, chi con un pezzo di giardino si mette a prendere il sole in bikini, nonostante non sia già tempo di farlo.
Chissà se anche Neneh Cherry, Dio che bella che era e è Neneh Cherry, cantava scalza come Joss Stone, Dio che bella che era e è anche Joss Stone? Credo proprio che passerò la serata di questa Pasquetta in clausura ascoltandomi tutta la loro discografia, un po’ di suol e R’n’B a scaldarmi il cuore, tanto di sera fa ancora fresco, non si può stare in balcone a guardare il mondo che nonostante tutto prova a sbocciare, a partire dai piedi.