Riprendo a parlare di critica musicale.
Riprendo a parlare di critica musicale e, ovviamente, riprendo a parlare di me, scrittore che ha deciso di dedicare buona parte della sua opera alla critica musicale. Nei fatti, riprendo a parlare di critica musicale, soffermandomi sul fatto che, in un mondo normale, quale il nostro mondo non è, un critico musicale neanche dovrebbe avere una faccia, figuriamoci averla facilmente riconoscibile per chiunque.
Guardandomi indietro, non troppo, eh, guardando agli ultimi cinque anni, sei anni, se proprio devo identificare un errore strategico nel mio essere tornato a fare il mestiere che faccio è quello di essermi mostrato. Di essere diventato, quindi, oltre che una firma e uno stile, anche una faccia e una voce. Qualcosa di palpabile, raggiungibile, umano.
So esattamente quando è successo, e, intendiamoci, non sto certo recriminando niente, ma ho l’idea piuttosto precisa che se quel giorno di febbraio avessi detto un No, probabilmente, a quest’ora me ne starei molto più tranquillo. Probabilmente non me ne starei solo molto più tranquillo, lavorerei anche di meno, è vero, ma queste sono considerazioni che non posso provare con certezza, quindi potrei anche dire che di questo assioma la sola parte certa è quella relativa alla tranquillità o alla sua assenza.
Era Sanremo 2016, nel senso del Festival della Canzone Italiana di Sanremo 2016, per essere chiari, e il pomeriggio del lunedì, quello storicamente destinato alle prove aperte ai giornalisti e critici, unico momento in cui chi scrive di musica durante la kermesse canora ha modo di entrare all’Ariston e sentire quel che poi gli spettatori potranno seguire in televisione (e loro nei maxi schermi della Sala Stampa). Me ne stavo nel foyer quando vengo avvicinato da Giorgio Cappozzo e Giovanni Benincasa, due noti autori tv che conoscevo però solo di nome. Mi avvicinano e mi dicono che mi vorrebbero come ospite al DopoFestival, tornato proprio quell’anno dopo un periodo di pausa, il DopoFestival di Nicola Savino e della Gialappa’s. Non si limitano a dirmi questo, mi dicono pure che hanno deciso di dare un taglio coi giornalisti che si vedono sempre in tv, di voler rinfrescare il parterre, insomma, di cambiare aria. Io non sono tecnicamente un giovane, perché ho già quarantasette anni, ma sicuramente non sono un volto visto in tv. Non ci sono praticamente mai andato, e questa è stata una benedizione. Mi è capitato qualche volta di essere invitato, a varia natura, ma ho sempre evitato di concedermi, perché non credo che apparire sia appagante, e perché, invece, penso che non esserci sia decisamente più interessante, sia da un punto di vista di comunicazione, il potere dell’assenza non me lo sono mica inventato io, sia da un punto di vista della pigrizia. Ero già stato preallertato da Enrico Ruggeri, amico che frequentavo non da molto ma col quale ci siamo subito trovati in grande sintonia, il quale mi aveva detto di aver parlato con Savino di me, il che dovrebbe farmi ammettere di non essere rimasto molto sorpreso. In realtà, il mio essere tornato a Sanremo dopo tanti anni, ne avevo fatti relativamente pochi, in quel passato remoto in cui avevo scritto di musica per Tutto Musica, mi aveva frastornato, per quella strana atmosfera fatta di costante pressione, incontri, ascolti, saluti che è Sanremo durante il Festival, per cui quando me lo hanno detto sono in effetti trasalito, ma me lo sono subito dimenticato. Ero al Festival per il sito de Il Fatto Quotidiano, e il giornale aveva preso a me e a Domenico Naso, il collega che seguiva il Festival da un punto di vista televisivo, un piccolo appartamento a pochi passi dall’Ariston. Pochi passi che però, non appena si avvicinava l’ora della diretta tv, diventavano chilometri e chilometri e chilometri impercorribili, tale era la ressa che affollava tutta quella zona. Per cui, quando la sera del martedì, Giorgio e Giovanni mi hanno nuovamente invitato, sono davvero caduto dal pero. Al punto che non sono neanche riuscito a tornare in casa, per mettermi qualcosa di decente addosso. Non che io mi fossi portato qualcosa di decente da mettere addosso, sono solito girare con felpe e t-shirt, e quelle avevo, ma almeno mi sarei dato una pettinata, che so?, avrei fatto qualcosa per non apparire l’hooligan che invece fece irruzione dentro le case di quei milioni di spettatori che seguirono in massa il DopoFestival quella prima serata, e anche le serate successive. Perché il mio essere lì con addosso una felpa del West Ham e coi capelli lunghi e ricci raccolti in una coda sopra la testa, vagamente alla Busta Rhymes, lo so, ha bucato parecchio. La pettinatura, lo dico senza vergogna, non era cercata, solo che quel giorno pioveva, e quando sono arrivato a Villa Ormond, location del DopoFestival, ho realizzato di avere i capelli conciati come neanche un cane bagnato, e la sola pettinatura per me plausibile si è rivelata quella. Di fatto in quel Festival sono stato invitato tutte le sere, e per tutti quelli che lo hanno seguito sono diventato “il cattivissimo Monina”, “l’Anticristo”, “il temutissimo Monina”, insomma, l’hooligan con le felpe e i capelli lunghi che maltrattava i cantanti senza tanti peli sulla lingua. Andavo direttamente lì a ascoltare e vedere le serate con gli autori, il che mi ha anche salvato dal dover stare in Sala Stampa, fatto che da quel Sanremo in poi ho sempre schivato come si fa con una merda ben visibile sul marciapiede. Pur ben visibile in tv, almeno tra addetti ai lavori, ero ancora quello che non c’è. Del resto non mi avevano quasi mai visto alle conferenze stampa, nelle tribune stampa di stadi e palasport durante i concerti, da nessuna parte, non vedermi in Sala Stampa spero sia stato un sollievo per loro tanto quanto lo è stato per me. Ma dentro le televisioni c’ero, mio malgrado. E c’ero in maniera piuttosto incisiva.
Da quel momento, da un certo punto di vista, è iniziata una mia seconda vita. Fatta anche di mainstream, seppur con moderazione, inizialmente, e con molta moderazione, ora. Perché da quel momento i numeri che si sono mossi intorno e su di me sono aumentati, esponenzialmente, così come le attenzioni da parte del sistema, questo lo so bene, e sono meriti o colpe che riconosco a quel mio essere apparso. Ma al tempo stesso da quel momento io non sono più stato solo una firma, ma anche una faccia, una felpa (dettaglio poi uscito di scena per colpa di un altro tizio che ne ha esibite anche troppe), una voce, oltre che una firma, fatto che se da una parte ha ampliato la mia gamma d’azione, dall’altra ha reso la mia cifra più difficile da gestire, perché la mia voce e la mia faccia non necessariamente parlano la stessa lingua delle mie parole scritte.
Per intendersi, sto cercando di fare un discorso obiettivo non tanto su di me, non scambiatemi per un egoriferito o per un megalomane, ma sull’esserci o non esserci, e lo sto facendo usando me come esempio archetipo, dal momento che in prima persona ho vissuto e sto vivendo vantaggi e svantaggi dell’esserci o del non esserci, e su di me so bene di funzionare meglio quando scrivo di quando passo per la tv, ma so pure che il passare per la tv con anche un briciolo di quella cifra lì mi rende potenzialmente qualcosa di esplosivo, perché se sulla carta stampata, che poi stampata ormai quasi non è più, visto che io e quasi tutti gli altri lavoriamo prevalentemente sul web, quello che scrivo e dico ha l’effetto di una bomba carta buttata in salotto, se quella stessa carta la butto dalla televisione la deflagrazione la sentono non solo le case vicine, ma anche quelle lontane, lontanissime.
L’anno dopo la faccenda si è fatta ancora più devastante, perché oltre a essere tornato come ospite fisso in tutte le puntate del DopoFestival di Savino e la Gialappa’s, ero tutte le sere in diretta su Rtl 102,5 in compagnia di Pio e Amedeo, loro a Milano nella sede ufficiale della radio, io in una villetta lì a Sanremo che di sera diventava lo studio dell’emittente e nella quale arrivavano di persona i cantanti in gara. Questa cosa della radio, magari, ve la racconto un’altra volta, perché ha portato con sé più oneri che onori, con tutta una serie di accuse di aver venduto il culo al sistema da parte di chi il culo al sistema non solo lo aveva venduto da sempre ma ci aveva lasciato costruire anche una veranda abusiva. Di fatto, però, non solo ero quello più letto durante il Festival, assai di più dei miei più blasonati colleghi dei quotidiani di carta, ma ero quello che Rtl 102,5 spingeva con spot che andavano in onda ogni quarto d’ora come L’Anticonformista, nonché quello che in radio ci passava buona parte della giornata, ospite di tutte le trasmissioni sanremesi, per poi andare a chiudere le giornate al DopoFestival, unico critico musicale fisso in ogni puntata. Al punto che alcuni colleghi hanno boicottato il programma, come magari qualcuno di voi ricorderà, visto che la faccenda esplose quando Gabbani alla fine vinse e non fu possibile annunciarlo al DopoFestival, come si era inizialmente pensato, proprio per l’assenza di tutti i giornalisti, me escluso. Senza star qui a fare tutta la storia, non è di questo che mi interessa parlare, posso dirvi che quel mio passare dal DopoFestival, che è un mainstream di massa, perché l’ultima puntata di quella seconda stagione ha superato i cinque milioni, al punto che ho gioiosamente mandato a cagare Domenica In, che mi voleva come ospite destinato a intervistare i cantanti in gara per la puntatona della Domenica, ma non uno dei tanti, uno dei tre selezionati per stare al centro della scena, quel mio essere passato dal DopoFestival, dicevo, mi ha in qualche modo fatto diventare una faccia, tanto quanto il mio diventare uno delle voci di Rtl 102,5, in quella prima stagione col programma Monina Against the Machine mi ha fatto diventare, appunto, una voce, fatti, entrambi, che non credo mi abbiano fatto guadagnare né lettori né followers, e non serve io stia qui a dirvi quanto i followers veri, non quelli comprati a pacchetti come certi miei colleghi, servano in un mondo in cui è sui link condivisi che si gioca la visibilità e quindi la potenza della propria penna, fatti entrambi, l’essere diventato una faccia e una voce che mi hanno alla lunga depotenziato.
Perché, nonostante io di fondo sia quello che ha fatto due serate finali del DopoFestival indossando t-shirt dei rispettivamente dei Faith No More e dei Dead Kennedys, quest’ultima nell’unica puntata del DopoFestival di Edoardo Leo a cui ho preso parte, nonostante io sia quello che è andato in onda a Rtl 102,5 con le orecchie di pelle da coniglio tanto quanto con la t-shirt dei Jane’s Addiction o la mazza da baseball con su incisa la mia faccia, citazione di Negan di The Walking Dead, di colpo sono diventato raggiungibile, io che me ne ero sempre stato in disparte.
Sì.
Di colpo qualcuno, erroneamente, ha pensato che il mio essere lì volesse dire che facevo in effetti parte dello stesso calderone, della stessa materia di cui sono fatti i sogni.
C’ero, quindi ero.
Magari, quello stesso qualcuno, ha un po’ vacillato sentendomi parlare in radio, perché ho sempre tenuto la stessa linea dei miei articoli, senza né ammorbidirla né cambiarla, e ancor più quando avrà visto che prima ho rifiutato in maniera perentoria, se non violenta, gli inviti ricevuti da Maria De Filippi per andare a Amici, e poi ho anche lasciato lo stesso giornale per il quale avevo ripreso a scrivere, per questo mio ostinarmi a non scendere a compromessi, nello specifico al dover essere bonario nei confronti di alcuni artisti vicini alla direzione e soprattutto al mio diretto riporto. Sono diventato più visibile, è vero, più popolare. Ho passato i venerdì sera di tutta quella stagione di Monina Against the Machine a leggere i commenti che arrivavano via sms in radio, quelli destinati poi a venir pubblicati in tv, come sottopancia, in cui mi si salutava, coccolava, blandiva, ho ricevuto decine e decine di selfie di gente che si ritraeva con me immortalato in tv, in casa o in una delle migliaia di pizzerie sintonizzate su Rtl 102,5, insomma, sono diventato davvero visibile, ma anche umano. Inorridivo di fronte a tutto questo, sia chiaro, ma non riuscivo a cambiare la realtà. Ho una voce che non si addice a quello che scrivo, mi hanno detto in molti. Una faccia meno da cattivo di quanto io non sembri leggendomi. Come se l’avere una voce dolce addolcisse quello che dico, o come se la mia faccia rendesse più smussati gli angoli e gli spigoli presenti nei miei pezzi. Essere iniziato a comparire a Striscia la Notizia, poi, ha reso quella visibilità, quella riconoscibilità, quasi capillare. Di colpo anche gente di cui non so il nome mi ha cominciato a salutare più calorosamente, davanti a scuola dei miei figli, nel quartiere, e anche nel palazzo in cui abito. Di colpo sono diventato quello dentro la televisione, a ora di cena.
Ora, negare che esserci, essere ogni tanto visibile per milioni e milioni di persone, mi sia dannoso, sarebbe una cazzata. Direi addirittura un’eresia. Se così fosse, semplicemente, mi guarderei bene dal rispondere al telefono quando mi chiamano. Cosa che per altro quasi sempre faccio. Ora più di prima. Ho solo un po’ cambiato il mio atteggiamento, il mio modo di concedermi. Ho passato il penultimo Festival alternando il mio essere dentro le televisioni come la scintilla che ha scatenato l’esplosione che proprio Striscia la Notizia ha fatto deflagrare su Sanremo, Baglioni e Salzano, all’essere una delle tre EMME sbandierate ogni due per tre dagli spot di Rtl 102,5, dove le altre due EMME erano Mara Maionchi e Cristiano Malgioglio, dal momento che noi tre eravamo i titolari del programma serale dedicato al Festival, circa quattro ore e mezza di diretta ogni sera, mentre Baglioni presentava le canzoni sul palco. Una botta di visibilità senza pari. Una botta di visibilità che mi hanno spinto, di lì a pochissimo, a lasciare dopo tre anni Rtl 102,5, e a ritirarmi ulteriormente in una sorta di eremitaggio sempre più lontano da tutto e tutti.
Grazie al cazzo, dirà qualcuno, ormai ci sei.
Grazie al cazzo, sì.
Ci sono. Ma sulla mia pelle. Altrove.
Ho sganciato una bomba carta su Sanremo e non mi invitano più in Rai, non solo al DopoFestival, questo è successo a febbraio, ma neanche a Tv Talk dove invece ero andato qualche volta?
Amen.
Quest’anno che a condurre il Festival c’è stato Amadeus, sulla carta meno ostile nei confronti di Rtl 102,5, un po’ meno nei fatti. Io mi ci sono avvicinato sganciando una bomba sul Festival, stavolta indicando nei rapporti tra il Direttore delle Comunicazioni della RAI, Marcello Giannotti, e nella azienda nella quale ha lavorato per anni, MN, un ipotetico conflitto di interessi. Fatto che ha portato per la prima volta la RAI a non affidare a una azienda esterna la consulenza alla comunicazione per la kermesse sanremese. Bomba che è stata fatta brillare sempre da Pinuccio e sempre a Striscia la Notizia, ormai siamo una coppia di fatto, quando si parla di musica. Fatto questo che mi ha messo ancora di più in buona luce con l’estabilishment, figuriamoci. Per questo ho accettato mio maglrado di tornare a essere una delle voci della radio di Cologno, stavolta in compagnia della Gialappa’s e della Maionchi, alternando tutto questo al mio essere costantemente in onda su OMTV.it, mia personale strada verso una autarchia consapevole. Visibile, certo, ma con il mio controllo della situazione, o quello che più ci si può avvicinare.
Per cui, facendo il punto della situazione. Il mio Sanremo ha dovuto rinunciare agli artisti gestiti da MN, per motivi evidente. Idem per quelli il cui ufficio stampa era lo stesso dei TheGiornalisti, non sia mai che l’aver messo in dubbio il successo del concerto Love Al Massimo e la tenuta della band, band che di lì a una settimana si è sciolta, passi impunito. La Universal mi ha messo al bando per quello che ho scritto su Jacopo Pesce, in arte “Gino con le mutande”, la stessa Universal che pubblica poi il film di cui sono autore, quello su Vasco. Uniche eccezioni alla fatwa di Gino Rancore, che però mi cita nelle sue note biografiche, è un amico, non poteva non venire, e Urso, arrivato per intercessione di Maria in prima persona, pensa te. Fuori da Sanremo X Factor mi ha tagliato fuori dalla lista degli inviati alle conferenze stampa per il mio essere molto chiaro riguardo la caduta libera nella quale è precipitato, questo a partire dal caso Jarvis via via con tutte le pagelle e gli articoli scritti. L’elenco di chi mi scansa è lungo tanto quanto la lunghezza metaforica del mio metaforico uccello, uomo invisibile di crepaxiana memoria che non sono altro.
Ecco, quello sono io, per dirla alla Morgan. L’uomo invisibile. O quello dovrei essere.
Perché non esserci non ha prezzo.
Perché chi non c’è, non fatemi citare Nanni Moretti, vi imploro, si nota a sua volta, certo, e perché chi non c’è, con buone probabilità, se ne sta a casa sul divano in ciabatte.
E perché chi non c’è, comunque, è lì, ben visibile con quello che scrive, e dal momento che sto parlando di me in terza persona, come la Cucinotta, forse è il caso che la chiuda qui.
Perché, è chiaro, dalla mia ho un talento spropositato e quello non saranno certo i golfini color acquerello o i calzini con topolino esibiti da coloro che invece son sempre presenti a poterglieli dare. Quello mica lo trovi sulla sedia con su scritto Riservato, mi spiace, nello specifico sta quasi sempre steso sul mio divano, dentro i miei vestiti e le mie ciabatte, dietro la mia faccia.