È un attimo. Ti giri un secondo, ti distrai, e in un attimo ti ritrovi dall’essere un rivoluzionario all’essere un reazionario.
Ve lo giuro, può capitare. A me è successo.
Sembra ieri che ero il tizio strano coi capelli lunghi che stroncava gli artisti che finivano in copertina su Tutto Musica, un magazine importante, all’epoca, per una mera faccenda di copie vendute, che un po’ anche grazie a me e alle mie stroncature ha cominciato a diventare anche un magazine che diceva qualcosa, che non si limitava a passare veline. E oggi vengo confuso per un vecchio brontolone a cui non sta mai bene niente, uno ancorato a un passato che, a ben vedere, non ha neanche vissuto, perché rimpiange un’epoca talmente lontana che se la può al limite aver fatta raccontare, e già il fatto che parli di sé in terza persona la dice lunga su quanto vecchio sia.
Sembra ieri che ero il tizio appassionati di hip-hop che transitava suo malgrado per la Mondadori, finendo non solo a tradurre il libro dei testi di Eminem quando Eminem era per tutti lo spauracchio, quello a cui Raffaella Carrà avrebbe fatto la ramanzina sul palco del Festival di Sanremo, ma anche quello indicato come il cattivo maestro che avrebbe portato tutti i nuovi adepti a questo genere, non ancora sdoganato, a commettere omicidi, specie in seno alla propria famiglia, finendo quindi non solo a tradurre il libro dei testi di Eminem, ma anche a parlare di rap in ambito mainstream, andando in qualche modo a impattare con il mercato, se è vero come è vero che Mondo Marcio, il primo rapper che veniva “dal basso” a finire in vetta alle classifiche con una major, fatto che avrebbe aperto poi definitivamente le porte a tutti gli altri, da Fabri Fibra a oggi, è in qualche modo stato battezzato da me proprio su quelle colonne tuttomusichiane. E oggi vengo confuso per quello che ritiene tutto quel che viene “dal basso”, perché qualcuno davvero sembra credere che trap e indie siano generi avulsi al sistema musica, musica demmerda. Uno, quindi, ostile al nuovo, al diverso, a tutto quello che si appresta a scalzare l’affermato. Un reazionario, appunto.
Sembra ieri che ero il tizio senza faccia che è tornato a scrivere di musica, stavolta in rete, dopo un decennio di semilatitanza, passato più a scrivere libri, spesso libri musicali, che a scrivere recensioni o fare interviste, e le interviste mi hanno sempre fatto abbastanza cagare, perché ho sempre pensato e penso che gli artisti abbiano poco da dire a parole e che a me, in fondo, anche del poco che hanno da dire a parole non interessa poi più di tanto scrivere, perché quel che ho da scrivere lo ho da scrivere di mio, per quel che la musica mi ha detto e mi dice, per quel che la musica mi permette di dire, la musica altrui, ovviamente, non la mia. E oggi vengo confuso per uno che si è arroccato in una sorta di Fortezza della Solitudine, e se dico Fortezza della Solitudine, che oltre a essere il titolo di un bellissimo romanzo di quel mezzo genio, mezzo perché ha scritto tante cose belle ma anche diverse cagate, di Jonathan Lethem, perché è il nome del rifugio segreto di Superman, un supereroe che mi sta profondamente sul cazzo, per quel suo essere in qualche modo perfetto, imbattibile, superuomo e quindi in qualche modo di destra, sovranista senza essere re, nazionalista pur essendo di un altro pianeta, ma pur sempre un supereroe, mica uno sfigato qualsiasi, e credo che a nessuno, neanche ai più distratti, sia sfuggito che nutro una certa stima nei miei confronti, altrettanto imbattibile di quanto non sia Superman, senza però neanche avere una cryptonite che la possa indebolire, e oggi vengo quindi confuso per uno che si è arroccati in una sorta di Fortezza della Solitudine, pronto a smantellare lo smantellabile, abbattere il palazzo, negare il bello anche laddove il bello c’è, eversivo come Superman non sarebbe mai stato, distruttivo, al limite, ma non certo rivoluzionario, incapace, quindi di guardare al domani non dico con speranza, ma neanche come possibilità.
E proprio di supereroi voglio passare a parlare, per quello che è, tecnicamente, un secondo incipit di questo pezzo, una sorta di ripartenza da intendersi però non come una ripartenza sacchiana, mi ha sempre fatto cagare anche il calcio di Sacchi, tutto muscoli e strategie, ma proprio come un secondo inizio.
Perché se guardiamo al mondo dei supereroi, e lo dice uno che non è certo uno studioso del genere, e neanche uno di quei nerd che vi citano a memoria edizioni rarissimi o che spendono un occhio della testa per pupazzetti di plastica che rappresentano questo o quel personaggio, solo e esclusivamente da appassionato di fumetti, perché se guardiamo al mondo dei supereroi, non vi sarà sfuggito come a un certo punto Marvel e DC Comic siano state attraversate da una vera e propria rivoluzione, di quelle che dopo il loro avvento nulla è più come prima, per fortuna, aggiungo, anche perché in quel momento, non ci fosse stata la rivoluzione, ci sarebbe stato direttamente il funerale.
Cito due nomi, e qui, se siete tra quanti seguono le vicende del mondo dei fumetti, mi potrei serenamente fermare e lasciare che traiate da soli le vostre conclusioni: Frank Miller e Alan Moore.
Oggi considerati, per almeno un verso anche a ragione, due vecchi rincoglioniti, Miller lì a fare l’anti-rivoluzionario, pensate a cosa ha detto riguardo il ragazzi di Occupy NY, appunto, sorta di incarnazione autoriale di Robocop e al tempo stesso a implorare di entrare a Hollywood, che brutta fine, Dio mio, Moore incartato nei suoi deliri magici, distante dal mondo reale, salvo le sue preghiere riguardo la Brexit, pronto a negare il suo consenso a qualsiasi adattamento cinematografico delle sue opere, mai come oggi presenti al cinema, i due in questione hanno letteralmente ridefinito il concetto di fumetto superoistico, e non solo, andando a portare un tocco d’autore, di letteratura, diciamo le cose col proprio nome, laddove fino a quel momento, erroneamente, sembrava regnare solitario il pulp, la serie B, la dozzinalità.
Non è di fumetti che sto parlando, quindi vi invito a approfondire altrove, presso firme più competenti a riguardo della mia, ma vi basti pensare a cosa Miller ha fatto con il Cavaliere Oscuro, al secolo Batman, e Moore con il suo Watchmen per capire di cosa vado parlando.
Umanizzazione, introspezione, ampliamento del contesto narrativo, più semplicemente abbattimento del concetto di buono/cattivo, spesso con infinite sfumature di nero. Romanzi, questo diventano i fumetti, anche quelli dedicati ai supereroi, veri e propri romanzi, letteratura al cento per cento. E so che nel dirlo farò rabbrividire quanti adorano i fumetti, perché nel dirlo è come se sostenessi che ci sono anche fumetti che letteratura non sono. Ma non è certo questo il posto dove affrontare questo argomento. Mannaggia a me e a quando mi sono infilato in questo cul de sac.
Torniamo indietro. Assecondatemi, sono un vecchio brontolone stanco.
C’è stato un tempo, non un secolo fa, in cui Frank Miller era un rivoluzionario, in cui Alan Moore era un rivoluzionario.
Hanno ridefinito il concetto di supereroe.
Hanno ridato vita a un mondo in agonia.
Hanno fatto a loro modo la storia.
Erano due rivoluzionari, due visionari.
Poi è successo qualcosa, a entrambi.
Solo che, a occhio, Alan Moore è ancora un rivoluzionario, un visionario, solo che le sue visioni se le tiene quasi sempre per sé, Frank Miller è diventato un reazionario, forse lo è sempre stato ma non ce ne eravamo accorti, distratti dalle belle storie che scriveva, un reazionario se non addirittura un fascio, come uno dei suoi personaggi lì a Sin City.
Non tanto un parti incendiario e finisci pompiere, siamo in tutt’altro territorio. Parti Cromwell e finisci Enrico VIII, qualcosa di simile. Una brutta fine, appunto.
Non è di me che si parla, anche se potrebbe sembra, ma diciamo che se dovessi indicare qualcuno cui mi sento vicino, la fisiognomica non mente, sceglierei Alan Moore più Frank Miller, ma il fatto che un Frank Miller esista mi spinge a dire che è in effetti verosimile che si possa partire come rivoluzionari e finire per essere reazionari. Perché, non è il caso di Miller, capiamoci, ma mica sempre provare a contrastare i cambiamenti è da considerarsi come qualcosa di sbagliato. Se il cambiamento è sbagliato ben venga chi è difende quel che c’è o c’è stato. Viva i reazionari, direi, non fossi così prepotentemente anarchico.
Ma veniamo a noi.
Colei di cui voglio però parlarvi oggi è una strana figura mitologica, decisamente più dalle parti di Alan Moore che da quelle di Frank Miller, intendiamoci, che però qualcosina di Frank Miller in sé ce l’ha, rivoluzionaria con qualche punta di reazionariato, sempre che si dica così.
Parlo di Micaela Tempesta, una cantautrice campana che ha sfornato giusto un anno fa un album di cui, all’epoca, non ho parlato non per disinteresse, ma più per distrazione. Blu, il titolo dell’album, dal lei scritto e prodotto in compagnia di Massimo De Vita, in arte Blindur. Dieci canzoni che riescono in quello strano miracolo di essere rivoluzionarie e reazionarie al tempo stesso, reazionarie per come l’ho intesa poco fa. Micaela Tempesta, infatti, ha una scrittura che è al tempo stesso qualcosa di assolutamente nuovo e di assolutamente classico. Padroneggia la lingua come poche sue colleghe, i colleghi manco li voglio prendere in considerazione che ultimamente i maschietti dicono poco o nulla, e lo fa andando a prendere i canoni della musica black, quasi tutti, e stravolgendoli. Nel farlo, però, è radicalmente ancorata a un’idea di scrittura scrittura, non è affatto frammentaria, in questo assolutamente reazionaria, vista la vaporizzazione cui sembrano tutti votati oggi, i canoni restano canoni, lei si limita a smontarli e rifarli da capo, suoi. Ha un flow, Micaela, che raramente si trova fuori dagli ambiti urban o hip-hop, e per certi versi le sue canzoni potrebbero anche essere identificate sotto quelle caselle, ma al tempo stesso è alla scuola napoletana degli anni passati che sembra costantemente guardare, con rispetto e dedizione. L’ascolto di Blu è spiazzante, perché Micaela Tempesta domina i suoni e le parole con una padronanza che non ci si aspetterebbe da una esordiente, seppur giunta all’esordio dopo lunga militanza in studi di registrazione, e perché, forte di una libertà che solo il sapersi fuori dal mercato in quanto non ancora intercettata dal mercato concede, la Tempestae permette di azzardare soluzioni, penso anche a certi incastri lirici in cui sembra costantemente che le rime scivolino fuoriposto senza però mai finirci, che altrimenti le sarebbero non dico negate, ma sicuramente sconsigliate. Siamo di fronte, mi viene a mia volta da azzardare, a una delle penne più mature e al tempo stesso moderne del nostro panorama, qualcuna capace, torniamo a quanto detto sopra, di rivoluzionare la scrittura ma al tempo stesso di preservarne la salvezza. Non a caso, con le sue macchine ma anche i suoi strumenti strumenti, dal piano alla chitarra al basso, l’abbiamo vista questa estate vincere il Premio Bindi, in autunno farsi notare al Premio dei Premi al MEI di Faenza, proprio ieri vincere Musica contro le mafie a Cosenza, con 4M3N, e ora la sappiamo in lizza per il Premio De Andrè, artista eccentrica, certo, ma facilmente identificabile come artista di razza. La speranza è solo che non ci faccia aspettare altri venti e passa anni prima di ascoltare un nuovo lavoro.