Il modo di vestire, di adornare il viso, il collo e le mani, di pettinare e acconciare i capelli rappresenta – da sempre – un elemento connotativo della personalità e del ruolo sociale. Ogni epoca ed ogni cultura hanno una propria estetica, ed hanno le proprie esagerazioni, necessarie a definire alcune particolari funzioni. I capi militari hanno armi, vesti e decorazioni più vistose degli altri combattenti, i sovrani indossano tessuti lavorati, anelli e parrucche, gli sciamani si coprono di pelli, piume ed amuleti, gli artisti indossano abiti vistosi e accessori fatti apposta per attirare l’attenzione. Solitamente, al personaggio straordinario si attribuisce un “look” altrettanto straordinario e questo costituisce una sorta di codice socialmente accettato, a condizione però che quella particolare estetica sia indicativa di una personalità notevole.
L’impatto visivo di uno stregone carico di ammennicoli rivela la sua sapienza magica e allude ad un mondo esoterico inaccessibile agli altri; il guerriero coperto di tatuaggi racconta di numerose esperienze vissute “sulla propria pelle”; un artista punk, con la sua cresta, le borchie e il look estremo, annuncia la sua vocazione ad emozionare e stupire. Insomma, se c’è dietro della sostanza – come le arti dello stregone, la furia guerriera, o l’ispirazione musicale – l’aspetto estetico assume un suo significato, ed il look diviene elemento rivelatore di una forte individualità. Viceversa, se la sostanza è poca, la forzatura estetica, la spasmodica ricerca di un impatto visivo, rischia di stonare perché suscita aspettative che poi delude. Se scopriamo che quell’uomo vestito da Luigi XIV è un semplice impiegato contabile, o che quell’apparente “lupo di mare” tatuato e abbronzato è il semplice inquilino della porta accanto, o che quel presunto irriducibile rocker canta le serenate neomelodiche, l’effetto di quel look svanisce e, peggio ancora, l’outfit visivo viene percepito come un “travestimento”. Gli esempi sono all’ordine del giorno, e persino i protagonisti di qualche talent show televisivo – giudici e vocal coach molto impattanti dal punto di vista dell’immagine – rischiano di deludere nel momento in cui, dopo la fase silente sotto i riflettori, sono chiamati ad esprimere le proprie impressioni e il proprio giudizio.
Dietro la scrivania dei giudici c’è qualcosa di estremo e di carismatico, ad esempio, nel combinato di tatuaggi, pendagli, trucchi, accessori e occhiali di uno, o nelle fogge spinte di una cantante talentuosa , o nell’aspetto di molti altri guru del mondo musicale; ma tutta l’aspettativa legata ad un’immagine così forte rischia di ridursi drasticamente nel momento in cui tocca prendere la parola e argomentare le proprie valutazioni. L’orizzonte in cui si esercita la riflessione critica risulta spesso angusto, l’analisi intorno alla performance dei concorrenti resta un po’ piatta, e le osservazioni di merito si limitano a frasi del tipo “sei ok, non sei ok”, “mi arrivi, non mi arrivi”, “mi emozioni, non mi emozioni”, “hai spaccato, non hai spaccato”.
Non c’è nulla di grave nell’essere semplici, e a tutti può capitare di essere anche banali, ma quello che stride è lo scarto pauroso tra un look che promette faville e una fase di interlocuzione che offre così poco. Sotto i riflettori degli studi televisivi si esalta l’esuberanza del look, e sul tavolo dei giudici le sagome si stagliano come fossero divinità pagane; ma l’estrosità, la sorpresa, la brillantezza, il fascino, l’incisività non riguardano solo l’immagine esteriore, sono qualità che possono esistere anche nel pensiero e nella parola. Se poi forma e sostanza riescono a combinarsi anche nei concorrenti ancora meglio, il programma è salvo.
Così, d’istinto e all’impronta .. mi sovviene il dualismo junghiano: Segno o Simbolo. Non posso che condividere e accogliere pienamente l’analisi e il pensiero della nostra amata cantautrice. In un tempo dove apparire rende sempre (siamo certi?) protagonisti, dove la luce accecante dei lustrini vuole nascondere sempre l’ombra riparatrice e protettiva. Il silenzio genera pensieri buoni. Protegge ma mai nasconde. “Essere semplici” è bello. Rende unici e veri.Come la parola. Come il pensiero. Tutti possiamo esserlo. Dobbiamo esserlo. Grazie Grazia Di Michele. Bello sempre leggerti.