Nine dei Blink 182 è il disco di una band nostalgica di se stessa (recensione)

Il loro pop-punk si mette troppo al servizio delle nuove generazioni, offrendo loro un autotune che non si rivela necessario


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Ascoltare Nine dei Blink 182 significa dare ragione al frontman Mark Hoppus. Pochi giorni fa, infatti, il bassista di una delle band pop-punk più rappresentative degli anni 2000 si è messo a nudo e ha confessato che la band andava meglio quando c’era Tom Delonge, lo storico chitarrista che ha lasciato la formazione nel 2015 per dedicarsi ai suoi progetti, specie agli Angels & Airwaves. Da quel momento, forte di una vecchia amicizia con i Blink 182, Matt Skiba degli Alkaline Trio è entrato nella band.

Nine è il secondo capitolo del post-Delonge e arriva tre anni dopo California (2016). Come accade di fronte ad ogni novità, il pubblico è diviso: da un lato si parla di una stabilità riconquistata dopo il trauma dovuto alla mutilazione da Delonge, dall’altro si fa fatica ad accettare che i Blink 182 facciano ancora dischi. Non vi è bisogno, in realtà, di essere drastici, ma ciò che ascoltiamo nelle 15 tracce è tutt’altro che un prodotto maturo, se non per alcune intuizioni che, se fossero state diluite per tutta l’opera, avrebbero creato un lavoro superiore.

A 47 anni Mark Hoppus fa ancora il ragazzino e paradossalmente Matt Skiba, pur provenendo da una formazione emo-punk, in questa nuova veste indossa un grembiule che gli sta troppo stretto, anche se pare nasconderlo. La vera forza dei Blink 182 è Travis Barker, che con la sua straordinaria coordinazione e le sue doti da pestone old school potrebbe veramente suonare di tutto: i suoi riff sono puliti, forti e acrobatici, ma in questo disco si mettono al servizio di qualcosa che funziona male e poco.

Alla realizzazione di Nine ha collaborato lo storico produttore John Feldmann, lo stesso che ha firmato l’opera di Good CharlottePanic! At The DiscoBlack Veil Brides e tanti altri artisti della scena pop-punk e emo. Al suo fianco, ancora, troviamo Tim Pagnotta dei Sugarcult e songwriters del calibro di Captain CutsThe Futuristics, che quando non si occupano di pop-punk firmano brani per Justin TimberlakeSelena GomezCamila CabelloMika. Il risultato è un tentativo di sdoganare il pop-punk alle generazioni dei selfie e del glitter, cresciute con autotune e materialismo sonoro. La volontà si sente, ma non si può dire altrettanto della qualità.

The First Time apre il disco e i virtuosismi di Travis si fanno notare: accenti roteanti, flam e chiusure con schiaffi di charleston spingono forte e disegnano un contorno di dignità intorno a un cantato che fa il verso ai 30 Seconds To Mars più celebrativi, e pur passando a Happy Days le cose non cambiano. I Blink 182 puntano alla radiofonia e lo fanno senza scrupoli, anche se la voce di Mark Hoppus è stanca e logora, nonostante il coraggio di arrampicarsi sulle note più alte per cercare una dinamica che si traduce, nei live, con una tifoseria da stadio che il pubblico intona sotto il palco.

Le migliori performance vocali appartengono a Matt Skiba, anche se nel nuovo contenitore della band californiana appare ancora eterogeneo. Lo stretching sonoro continua con HeavenDarkside Blame It On My Youth, e ci accorgiamo di aver ascoltato 5 tracce che ci offrono un riepilogo dello statuto dei Blink 182: orecchiabilità, chitarre in muting, rullate audaci e liriche scontate, perfette per osservare il mare con le nostre All Star poggiate sul tavolino mentre sorseggiamo un Cuba Libre sfoggiando il nostro polsino con la scritta “Punk is not dead”.

Generational Divide è l’interludio hardcore pop: Travis corre velocissimo e segue la scuola di Erik Sandin dei NoFx, e in 49 secondi ritroviamo la spinta di Carousel (Buddha, 1994) che a questo giro viene violata dalla ricerca di una perfezione che cozza terribilmente con l’hardcore. Si migliora con Run AwayBlack Rain, due brani per i quali si può finalmente parlare di novità: canzoni pop che hanno forza, con lo stesso animo della band ma con quel mordente che finora non avevamo trovato. Possiamo constatare che sia tardi, perché arrivare alla vera anima del disco dalla traccia numero 7 può essere un problema, anche se non è nostro.

I Really Wish I Hated You, che avevamo già ascoltato come anticipazione del disco, è un brano degno di una boyband: i Blink 182 hanno davvero osato tanto e in questa traccia ci presentano un irritante autotune usato per l’ennesimo testo d’amore adolescenziale che si poggia su una base tipicamente pop-punk, ma con la parte “pop” più pronunciata. Il beat singhiozzante di Pin The Grenade funziona specialmente nella parte in cui interviene il cantato di Skiba, e tutto si salva quando, nel complesso, scopriamo un brano che non vuole strafare, votato alla semplicità che dopo tutti i tentativi presenti nel disco si rivela necessaria.

No Heart To Speak Of è disperata e sincera, e potrebbe avvicinarsi a Stay Together For The Kids con un taglio decisamente più contemporaneo e “freddo”, se consideriamo la consistente componente effettistica sulle voci. Ransom riprende il discorso di Generational Divide, con un minuto e 25 secondi divisi in due parti: la prima, pacata e alterata dall’autotune, cede il posto alla seconda in cui si ritorna all’hardcore pop con un Travis che di nuovo diventa l’acceleratore perfetto che mitraglia le pelli e ce le schianta dritte in faccia.

On Some Emo S**t si può commentare con lo stesso titolo, visto che fa parte di quelle tracce che tranquillamente si potevano scartare. Si tratta di un brano piatto e anonimo. Con Hungover You Remember To Forget Me la band sperimenta l’R’n’Punk, chiudendo il disco con un brano acustico come insegna la tradizione del punk-rock degli ultimi 30 anni.

No, nessuno dice che i Blink 182 siano al capolinea: la band è nostalgica di se stessa e Mark Hoppus non lo nasconde nemmeno sul suo profilo Twitter. Il 22 settembre, con ironia, il frontman ha pubblicato una vecchia immagine che lo ritrae insieme a Tom Delonge e al cantante Wayne Newton con la didascalia: “Mi mancano i vecchi Blink 182”. Ecco, Nine dei Blink 182 ne è la prova: Mark e Travis ci credono ancora, ma non emozionano più perché hanno adottato la dimensione più materiale del loro approccio alla musica. Non ci fanno più ridere (First Date) né piangere (Adam’s Song), e questo dispiace a noi e anche un po’ a loro.