L’Hotel Artemis è la clinica supertecnologica e supersegreta in cui trovano ricetto i peggiori criminali bisognosi di cure e discrezione. Gestito da una misteriosa “infermiera” (una Jodie Foster esageratamente invecchiata al trucco, che mancava al cinema dai tempi di Elysium, 2013), l’hotel è un’enclave protetta, con regole inderogabili: gli ospiti non possono portare armi con sé e sono tenuti al rispetto reciproco, senza possibilità di violenze – il che fa pensare inevitabilmente all’hotel Continental di John Wick, e non è certo un buon segno trarre ispirazione da una delle saghe più insulse dell’ultimo decennio.
Intorno all’hotel, intanto, infuria la battaglia: siamo a Los Angeles in un futuribile 21 giugno 2028, in cui divampano le rivolte del popolo disperato per l’approvazione di una liberticida legge sulla privatizzazione dell’acqua. Questo ancora di più spinge i criminali ad asserragliarsi in questo luogo protettissimo. E nonostante le norme ferree, fatte rispettare da un inserviente nerboruto, tatuato e minaccioso (Dave Bautista), è chiaro che nella polveriera dell’Hotel Artemis quella notte stia per accadere qualcosa di inimmaginabile.
Anche perché la letale killer Nice (Sofia Boutella, relegata al ruolo della bellona esotica) sembra avere secondi fini, che forse hanno a che vedere con l’arrivo improvviso nella struttura di Wolf King (Jeff Goldblum), semplicemente il padrone criminale della città. Anche l’infermiera non la conta giusta: perché altrimenti, contravvenendo alle regole tanto strombazzate, accoglie una poliziotta che le implora aiuto chiamandola con un nome che nessuno conosce?
Hotel Artemis (2018) è la prima regia di Drew Pierce, sceneggiatore di successo di Iron Man 3 e Mission Impossible: Rogue Nation, che per il suo esordio ha diretto una storia che si è scritto da solo meditandoci a lungo. E sebbene il produttore Stephen Cornwell abbia parlato di un film a metà tra John Carpenter e l’eleganza di Wong Kar-wai, è probabilmente il caso di moderare gli entusiasmi.
L’idea di fondo è che bastasse concentrare nello stesso luogo un alto numero di ceffi proverbiali e mescolare per ottenere una miscela esplosiva. È la ricetta, per fare un esempio classico, del divertentissimo Con Air, ma non sempre è facile ottenere quei risultati. Anche perché Hotel Artemis, a partire dalla sua protagonista claudicante e ciabattante, sembra prendersi terribilmente sul serio, puntando sul thriller distopico e apocalittico con spruzzate da melodramma – nel rapporto tra Sofia Butella e l’altro criminale con un cuore, il Waikiki di Sterling K. Brown – e l’immancabile, per la protagonista Foster, grande trauma del passato, con tanto di flashback a tinte pastello.
Il riferimento a John Carpenter non è in sé peregrino, sia per l’aria da b movie con ambizioni, sia per l’idea del gruppo asserragliato in uno spazio concentrazionario. Ma era proprio il maestro del sottogenere “dinamiche di gruppo in uno spazio angusto” – riferimento anche di Carpenter, quindi –, il sommo Howard Hawks, a ricordare che per dare zolfo a storie di questo tipo l’ironia costituisce un ingrediente irrinunciabile.
Nulla del genere in Hotel Artemis, che col suo immaginario steampunk, la scenografia severa – e d’indubbio effetto – di muri screziati e luci al neon che saltano ogni due minuti, l’aria terminale da redde rationem della civiltà occidentale, gonfia un action narrativamente esile di pretese al di sopra delle sue possibilità, condito da battute che vorrebbero essere proverbiali – come quella di Jodie Foster secondo cui l’Hotel Artemis si fonda su due capisaldi della natura umana, la cupidigia e la fiducia. Resta all’attivo una confezione elegante e scene d’azione calibrate: che per una visione da cinema balneare potrebbero anche essere sufficienti.