Addio a Luciano De Crescenzo: a quasi 91 anni, li avrebbe compiuti il prossimo 18 agosto, ci lascia una figura popolarissima della cultura e dello spettacolo italiani, che ha saputo incarnare con intelligenza e ironia la napoletanità intesa come una singolare categoria dello spirito. L’alfa e l’omega della sua filosofia è in quella distinzione, affettuosamente semplificatoria, degli uomini d’amore e degli uomini di libertà codificata in Così Parlò Bellavista, il suo libro d’esordio pubblicato nel 1977 con Mondadori, il cui subitaneo successo lo spinse ad abbandonare il posto fisso da dirigente dell’Ibm – era laureato in ingeneria e aveva studiato col geniale matematico Renato Caccioppoli –, una scelta di vita inimmaginabile a quell’epoca.
Luciano De Crescenzo lo fece e quel libro divenne proverbiale, parlando degli uomini d’amore, curiosi personaggi ovviamente napoletani – un po’ mitologici e anche irreali, ma lui lo sapeva benissimo – che antepongono gli affetti al lavoro, al successo, all’affermazione personale, perché per loro la realizzazione di sé non è un fatto di quantità ma di qualità. Infatti diceva anche, in quel libro: “Il napoletano, secondo me, considera il potere una fatica, un impegno troppo severo perché valga la pena di dedicarcisi per tutta la vita”.
Questo però non tragga in inganno: nel senso che Luciano De Crescenzo uomo di potere non lo è stato mai ma, anche nella sua seconda vita, persino di maggiore successo della prima, è stato un lavoratore infaticabile, che sotto l’aria sorniona e apparentemente pigra, ha nascosto una volontà di ferro, che gli veniva forse più che dall’etica dell’impegno da un gusto curioso verso la vita che non lo ha mai abbandonato. E infatti è impossibile persino trovare una definizione per lui, che è stato scrittore, ma anche cineasta e uomo di televisione, in alcune scorribande accanto allo spirito a lui più affine, il napoletano d’adozione Renzo Arbore, con cui realizzò tra le tante cose il programma Tagli, Ritagli E Frattaglie nel 1981, e per il quale divenne anche attore, nel celebre Il Pap’occhio.
Tra i suoi tantissimi libri bisogna almeno ricordare un’altra opera bestseller, la Storia della filosofia greca, che con tono divulgativo, tra una storiella e una nota critica assolutamente esatta – la filosofia antica la conosceva bene – parlava dei filosofi classici, che erano la sua vera passione, perché si occupavano di quello che più gli interessava, l’animo umano e la ricerca della felicità. Per Luciano De Crescenzo insomma, sotto sotto i filosofi greci erano un po’ napoletani. Di libri ne avrebbe scritti un numero incalcolabile, parlando anche di filosofi moderni e contemporanei, persino quelli tedeschi che, così rigorosi e astrusi, mal si sposavano col suo modo di guardare il mondo. Ma forse le sue pagine migliori si trovano in un libro autobiografico, un piccolo ironico vademecum alla vita buona, Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo.
Non si può dimenticare il suo cinema, da regista: Così Parlò Bellavista, del 1984, è una traduzione del suo libro persino più efficace della pagina scritta, perché su pellicola prende corpo, grazie a un gruppo di caratteristi napoletani che lui dirige con mano sicura, quella sua idea di Napoli come eterno teatro, come grande recita e messinscena senza fine. Tra una battuta e l’altra emergono pure, nel film, le croniche difficoltà della città, in cui il (non più tanto) giovane laureato di belle speranze è obbligato ad andarsene a Milano, come succedeva allora e come succede anche oggi. E alla fine la persona con cui Bellavista, interpretato ovviamente dallo stesso De Crescenzo, si intende meglio è il milanese Cazzaniga, uomo non meno spiritoso di lui. Perché poi, e Luciano De Crescenzo lo sapeva bene, queste supposte differenze tra uomini d’amore e di libertà non sono geografiche, ma hanno a che vedere con l’indole.
I suoi film da regista contengono battute e scenette irresistibili, di cui è pieno ad esempio quel trittico sulla relatività del tempo che è 32 dicembre, in cui mise insieme il suo gusto per i fatterelli con la passione per i paradossi della filosofia. A dominare il film è l’episodio “I penultimi fuochi”, la storia del napoletano che non ha una lira per sparare i suoi adorati fuochi d’artificio il 31 dicembre. Allora quando finalmente è riuscito a racimolare due soldi s’inventa il suo capodanno, il suo 32 dicembre, in pieno gennaio. Con conseguenze disastrose. De Crescenzo poi è anche regista di un film originale, Croce E Delizia (1995), in cui un feroce scherzo orchestrato durante una messa in scena de La Traviata sorregge un excursus tra i generi cinematografici.
Un film che dimostrava come Luciano De Crescenzo avesse un’attitudine da regista assai più spiccata di quanto si fosse disposti a riconoscergli. Ma lui era fatto così, era uno scrittore di vaglia e un regista consapevole delle sue qualità. Solo che dissimulava tutto questo dietro l’aria apparentemente sbadata e disimpegnata. Così noi lettori e spettatori finivamo per non accorgerci del suo talento, sbagliando di grosso. Ma questo accadeva anche perché, prima di ogni altra cosa, Luciano De Crescenzo era un maestro nell’arte, questa sì tipica dei napoletani migliori, dell’understatement. Ed è questa la sua lezione che, più di ogni altra, dovremmo cercare di imparare: per non prenderci troppo sul serio e per non perdere tanto tempo a specchiarci nella nostra immagine.