Dopo non più di cinque minuti il gioco de I morti non muoiono è già svelato. Il poliziotto Bill Murray si chiede perché ricordi così bene la canzone trasmessa alla radio, e il giovane collega Adam Driver gli risponde che questo succede perché si tratta del motivo conduttore del film. Ora qualcuno potrà anche interpretarlo come un raffinato dispositivo metacinematografico postmodernista. In realtà è soltanto il segno del fiato cortissimo dell’ultimo film di Jim Jarmusch, passato giustamente tra molti mugugni in concorso all’ultimo festival di Cannes.
Jarmusch non trova di meglio che mettere in scena un film sui morti viventi che è una pallida variazione sul tema del cinema di George Romero – per evitare che qualcuno non se ne accorga fa dire a un personaggio che la Pontiac del Sessantotto con cui va in giro è uguale a quella dei film di Romero.
Accade veramente pochissimo ne I morti non muoiono, film che si bea della sua impassibilità, tanto sul piano della narrazione che su quello della recitazione – Murray e Driver sono uno più immoto dell’altro. La storia è ambientata a Centerville, la solita cittadina della tranquilla provincia americana: dove prima si dileguano tutti gli animali, e poi i morti cominciano a uscire dalle tombe. Pare che dipenda dal fracking, che ha spostato la Terra fuori del suo asse, causando sconvolgimenti che possono ben contemplare il ritorno degli zombie. I quali non fanno altro che ripetere ciò che facevano in vita: c’è chi vuole caffè, chi chardonnay, anche se la loro vera passione è nutrirsi di carne umana. Allora i malcapitati abitanti del paesino – ma è quel che sta succedendo in tutto il mondo – sono costretti ad asserragliarsi per cercare di sopravvivere.
I morti non muoiono scorre come un vecchio horror di serie B, infilando una galleria di tipi più o meno originali la cui presenza, dal punto di vista della coerenza narrativa, non è sempre indispensabile. C’è l’icona Tom Waits che fa il selvaggio della foresta – misteriosamente è l’unico che non viene attaccato –, c’è Steve Buscemi che fa l’americano razzista, con tanto di cappellino trumpiano se non si fosse capito (“Keep America white again), c’è Danny Glover gentiluomo di colore, c’è Tilda Swinton nell’ennesima variazione del suo personaggio di alieno (letteralmente), c’è Selena Gomez non si sa perché.
Insomma un cast perfetto da film indipendente tutte stelle, con al centro la coppia Murray-Driver, che sebbene il mondo sia sull’orlo del collasso e anche quando ormai gli zombie li hanno circondati, continuano a discettare sussiegosi e pacati, anche perché conoscono la sceneggiatura e dunque hanno ben poco di che sorprendersi. Il film più o meno è tutto qui, con la sua scoperta allegoria politica – i morti continuano a consumare come quand’erano in vita perché erano morti già prima. Che sarebbe anche un’idea tagliente, se non l’avesse raccontata molto meglio quarant’anni fa Romero in Zombi e se, in questo caso, fosse servita da una straccio di progressione o coerenza narrativa – qual è la ragione della presenza dei ragazzini in quello che sembrerebbe un riformatorio?
Inoltre Jim Jarmusch, che non deve riporre troppa fiducia nell’intelligenza dello spettatore, piazza nel finale anche uno spiegone in voice over di Tom Waits che trae molto didascalicamente la morale del film, facendolo definitivamente naufragare. Sempre che il pubblico non si sia addormentato prima.