Rappresenta comunque un avvenimento il ritorno dell’ormai ottuagenario Dario Argento al cinema, con un film, Occhiali Neri, passato fuori concorso all’ultima Berlinale, che segue a dieci anni di distanza il precedente Dracula 3D. È un avvenimento intorno al quale si interrogano critici ed appassionati, con giudizi subito polarizzati in un senso o nell’altro, cosa che non sorprende rispetto a un autore eterodosso per la storia del cinema italiano come Argento. Meno coinvolti, a giudicare dai primi riscontri al botteghino, paiono gli spettatori, con presenze sparute che in gran parte sono certamente da collegare alla più generale crisi del cinema in sala, ma che, chissà, potrebbero essere anche sintomo dell’anacronismo di un certo tipo di immaginario.
Perché Dario Argento, con accanto il fedele sceneggiatore Franco Ferrini, suo collaboratore dai tempi di Phenomena (1985), imbastisce un thriller con risvolti gore – gli effetti speciali sono curati dalla factory dello specialista Sergio Stivaletti – dal sapore antico che, forse anche volutamente, rimonta agli anni Ottanta. Al centro della trama gialla c’è un serial killer di prostitute – quasi subito vediamo uno strangolamento raccapricciante ed insistito di una escort che ha appena lasciato un cliente.
A farne le spese è anche Diana (Ilenia Pastorelli). Compare la prima volta mentre inforca degli occhiali scuri per proteggere lo sguardo dalla vista di una inusuale eclissi di sole, che fa piombare improvvisamente Roma, teatro della vicenda, in un inquietante e naturalmente simbolico buio. Ironia della sorte, Diana dopo poco perderà davvero l’uso della vista, per colpa di un incidente d’auto, causato dal maniaco che la sperona con un furgone, nel quale muore anche una coppia di cinesi alla guida di un’altra autovettura.
Della famigliola resta in vita solo il piccolo Chin (Andrea Zhang). Sicuramente anche per il senso di colpa legato all’aver inavvertitamente causato la morte dei suoi genitori, Diana si lega al bambino, trovando in quel rapporto una ragione per affrontare la sua difficile condizione. Nel frattempo le forze dell’ordine, come si dice, brancolano nel buio, incapaci di trovare il serial killer che continua indisturbato a far strage di prostitute e poliziotti, più che mai ossessionato da Diana, che resta il suo obiettivo principale. Nel suo tragico destino vengono trascinati sia Chin che l’istruttrice esperta nella riabilitazione di non vedenti (Asia Argento) che l’ha aiutata a trovare un equilibrio nella sua nuova vita.
Occhiali Neri si prende o si rifiuta. Lo si prende se, collocandolo all’interno della carriera di Dario Argento, lo si considera un tassello della sua poetica e del suo stile, in cui a interessargli davvero sono la propensione visionaria, l’attenzione a certi elementi formali (seppure qui a un livello decisamente inferiore rispetto alle sequenze d’antologia delle sue opere migliori), il ritorno di certe tematiche (la cecità già per esempio in Suspiria), il modo sempre singolare di raccontare gli spazi in cui è ambientata la vicenda – qui alla Roma tra Eur e San Saba della prima parte, che possiede il sapore straniante e fuori del tempo proprio del suo cinema, segue l’epilogo in un altrove fatto d’una natura lussureggiante e minacciosa come quella di una fiaba, altra chiave di lettura del film. L’oscurità dei boschi in cui si svolge l’ultima mezz’ora della lunga fuga dal maniaco, condita persino di serpenti strangolatori, si riallinea idealmente all’oscurità dell’eclissi del prologo e a quella in cui è piombata la protagonista.
Incorniciato in questa prospettiva Occhiali Neri è un film che appartiene all’immaginario, al gesto cinematografico di Dario Argento, anche nella voluta artigianalità della messinscena. Chi però chiede a un film anche una certa coerenza e articolazione sul versante della sceneggiatura, un minimo di verosimiglianza di psicologie e personaggi, certamente storcerà il naso – siamo tra i perplessi – per l’esilità della scrittura, i dialoghi scheletrici, la mancanza di tensione, quasi il disinteresse rispetto al risvolto giallo, e più in generale la natura sussultoria di una vicenda che procede volontaristicamente, senza una figura coerente cui ci si possa appassionare, fino all’estenuante ultima parte.
Ben venga la visionarietà: la quale però, almeno all’interno di un film di genere e non apertamente antinarrativo, ha comunque bisogno di ancorarsi alla cornice di un racconto di una qualche solidità, per non finire nelle secche dell’intuizione estemporanea, della soluzione stilistica magari d’autore ma fine a sé stessa. Come accade nell’esile – e un po’ sbrigativo, questo si potrà dire – esercizio di Occhiali Neri.
Semplicemente ridicolo. Un brutto film, non si salva niente.
Niente trama, niente twist, un’attrice che dovrebbe far altro nella vita (almeno un corso di dizione), risvolti terrificanti da quanto son inverosimili.
A un regista si perdona tutto, se, nonostante le incongruenze, il film è valido.
Ma tra le innocue bisce d’acqua. la Pastorelli nelle paludi con minigonna inguinale, l’affido del bimbo cinese alla cugina prostituta … non si sa se ridere o piangere.
Dopo mezzora di proiezione ero annoiata a morte, io che amo il genere .. la voce atona, monocorde della Pastorelli è insopportabile, Che parli, strepiti, mormori, la cantilena nella voce di fa solo venir voglia che il killer la faccia a pezzi.