The French Dispatch, decimo film di Wes Anderson, parte dalla morte nel 1975 di Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray), creatore e direttore della rivista omonima, supplemento domenicale dell’Evening Sun di Liberty Kansas, nato con l’obiettivo di “offrire il mondo al Kansas”, e per questo con una redazione installata nella (immaginaria) cittadina francese di Ennui-sur-Blasé (qualcosa che significa più o meno “la noia sull’indifferenza”). Una rivista, grazie ai suoi articoli arguti, la veste tipografica ricercata, la visione cosmopolita, divenuta un successo da mezzo milione di copie. Fino appunto al momento della morte di Howitzer, che nel suo testamento lascia espressamente detto di chiudere il rotocalco.
Il film è perciò una versione in immagini del numero speciale di addio del French Dispatch, dedicato alla memoria del fondatore, che raccoglie alcuni dei migliori pezzi pubblicati dalla rivista nella sua storia cinquantennale – ad ognuno di essi corrispondono i singoli episodi, introdotti con tanto di indicazione del numero di pagine, come se gli spettatori-lettori stessero “sfogliando la pellicola”.
The French Dispatch quindi, ancora una volta nel cinema di Wes Anderson, ha la morte come motivo che mette in moto la narrazione. Quasi sempre le sue storie son segnate dalla scomparsa, o dall’assenza di padri reali e putativi, che lasciano i protagonisti, resi orfani, a vivere una vita mancante. Ragazzi geniali e bizzarri alla ricerca illusoria di figure paterne sostitutive (Un Colpo Da Dilettanti, Rushmore), figli alle prese con genitori assenti o abulici (I Tenenbaum, Moonrise Kingdom), disposti a tutto, persino a lunghissimi viaggi in fuga da sé stessi, pur di non affrontare l’elaborazione del lutto (Il Treno per il Darjeeling).
Nel caso di The French Dispatch la scomparsa da metabolizzare si configura come ancora più vasta. Non è un caso che Howitzer sia nato al rintocco del secolo, nell’anno 1900. L’ultima fatica di Wes Anderson, insomma, assume i tratti dell’elegia, e del de profundis, dedicato a un intero secolo, alla visione novecentesca dell’alta cultura. Una perdita difficilmente metabolizzabile. A svanire è tutto un mondo innervato sui princìpi della complessità e della profondità, cui si ricollega il modello giornalistico raccontato dal film, costruito intorno al lavorio incessante per trovare la parola esatta, al perfezionismo tipografico che rasenta l’ossessione.
La quale corrisponde precisamente all’implacabile bisogno di ordine, all’assoluta precisione geometrica del cinema di Wes Anderson. Più che mai in quest’ultimo film diviene chiaro come il principio ispiratore del suo modo di pensare e comporre immagini d’accuratissima fattura scenografica sia debitrice non tanto del cinema che l’ha preceduto – anche se qui l’ambientazione francese rimanda esplicitamente a Tati – quanto della pagina scritta e, soprattutto, stampata. Che ha come suo modello quel New Yorker su cui è palesemente esemplato il fittizio French Dispatch.
L’omaggio al Novecento assume però tratti quasi disperatamente bulimici. Persino all’interno di un universo visivo come quello di Anderson che ha fatto dell’estrema articolazione il suo mantra operativo, non s’erano ancora viste immagini talmente assediate di personaggi e dettagli, rese ancora più spiazzanti ed enciclopediche dal continuo passaggio tra colore, (novecentesco) bianco e nero, animazione. L’impaginazione è sempre sul punto di esplodere, di rovinare sotto il suo stesso peso. Talmente sontuosa nell’accumulazione sfiancante di cromatismi, linguaggi, oggetti, da finire per rendere secondari tanto i contenuti degli episodi quanto i personaggi e i corpi degli stessi divi coinvolti.
Infatti sono quasi intercambiabili le tre storie: l’ergastolano per duplice omicidio (Benicio Del Toro) lanciato come grande pittore astrattista da un cinico mercante d’arte (Adrian Brody); il turbolento maggio francese sessantottino visto dalla prospettiva di un giovane rivoluzionario modaiolo (Timothée Chalamet) e una giornalista radical chic (Frances McDormand); il ritratto di uno chef (Stephen Park) che si trasforma nel racconto del rapimento del figlio di un poliziotto. Ed intercambiabili sono i volti dei numerosissimi attori convolti, tra cui Léa Seydoux, Tilda Swinton, Owen Wilson, Mathieu Amalric, Liev Schreiber, Elisabeth Moss, Willem Dafoe, Christoph Waltz, Edward Norton, che paiono pedine disposte in una composizione nella quale il tutto fagocita e dissolve il ruolo specifico dei singoli.
The French Dispatch è una incredibile wunderkammer, una casa dei giochi e delle bambole, un’arca di Noè che pare voler salvare dal diluvio, dall’apocalisse dell’amato paradigma culturale del ventesimo secolo quante più cose è possibile, compresi stili di vita, parole desuete, abiti, acconciature, canzoni. L’effetto sullo spettatore però, non è tanto quello della meraviglia, quanto di un buffet talmente sovraccarico di pietanze da impedire al commensale di cogliere il sapore proprio di ognuna di esse, al punto da togliergli l’appetito.
Questo anche perché le singole scene, pur nella loro iridescente brillantezza, non riescono – forse non vogliono – a nascondere la natura funebre sottostante. Anderson indugia su immagini costruite come tableaux vivants, baruffe in cui le persone invece di lottare e accapigliarsi restano congelate in posture irrigidite, come fossimo lettori davanti alla fotografia stampata sul giornale e non spettatori della ripresa cinematografica dinamica di una zuffa. I personaggi non dànno la sensazione di essere vivi, paiono figurine di cartone, ritratte nella catatonia del rigor mortis, o nella stanca fissità di maschere. Così, per fare un esempio, il maggio francese delle barricate – posto che ad Anderson interessano più le schermaglie amorose dei protagonisti ritratti, come fossimo in un film della Nouvelle Vague, mentre fumano, leggono a letto e scrivono a macchina – è descritto proprio come un’immota partita a scacchi tra studenti e poliziotti.
Nel suo affannoso, rocambolesco affastellamento di materiali, The French Dispatch rasenta l’esercizio di stile, denuncia l’impasse creativa di un artista incapace di dotarsi di un modello espressivo che sostituisca quello novecentesco ormai estinto. Ed è spia di questa difficoltà l’assenza nel film del piacere del racconto, che non fluisce mai. I tre episodi non procedono secondo un principio di progressione della storia, ma sono composti da una giustapposizione di singoli tasselli statici. Sembra di star guardando un polittico, il cui filo narrativo, criptico, sia da ricavare dal confronto tra i vari pannelli. Potrebbe essere questo il senso del capolavoro del pittore assassino Moses Rosenthaler, composto da dieci grandi opere astratte che, magari, prese nel loro insieme alludono a una più vasta vicenda complessiva.
Tra l’altro il loro destino è di essere staccate dalla parete – si tratta di affreschi – per essere esposte stabilmente nella collezione di una facoltosa mecenate americana in Kansas. Difficile non pensare che Anderson si sia ispirato alla Rothko Chapel, il ciclo composto da 14 dipinti commissionati al pittore astrattista Mark Rothko per adornare una cappella aconfessionale a Houston (che è la città in cui è nato il regista). Un luogo in cui l’arte diventa veicolo di meditazione e, trattandosi di un spazio sacro, di riflessione sulla vita e soprattutto la morte. Che è, puntualmente, il lungo giro che compie The French Dispatch, il quale al termine della sua turbinosa enciclopedia di colori immagini stili vezzi ci riporta al capezzale di Howitzer per riservargli l’ultimo saluto.
Così si rivela la natura intima di un film al fondo lugubre, che ripercorre malinconicamente la storia della fine di un mondo. Un mondo insostituibile, senza il quale il suo cinema non sembra sapere esattamente cos’altro raccontare, e come. Forse Anderson dovrebbe fare come i protagonisti de Il Treno Per Il Darjeeling, che nel finale si sbarazzano delle ingestibili valigie paterne, appesantite da fantasmi genitoriali e da tutto un ingombrante armamentario culturale. Alleggerirsi. Sembra facile.