Dopo l’inciampo del Ghostbusters al femminile del 2016, sottoposto a un tiro al bersaglio finanche eccessivo, sembrava che si fosse trovata la soluzione ideale per accontentare anche i fan più suscettibili mettendo il sequel Ghostbusters: Legacy (in originale Ghostbusters: Afterlife) nelle mani di Jason Reitman. Un regista sulla carta piuttosto lontano da quell’immaginario tra fantasy e demenziale, e però figlio dell’Ivan Reitman che del cult movie del 1984 più seguito del 1989 era stato regista e produttore.
Ed effettivamente Ghostbusters: Legacy ha un sapore molto generazione di confronto, e di passaggio di testimone, tra padri e figli, nel quale agli acchiappafantasmi adulti d’un tempo fanno seguito gli imberbi apprendisti di oggi. C’è un altro singolare slittamento nel film di Jason Reitman, che scrive insieme a Gil Kenan (regista del remake di Poltergeist) una sceneggiatura che sposta la vicenda dalla caotica ambientazione metropolitana newyorkese alla più sperduta provincia rurale americana.
È lì che finisce Callie (Carrie Coon), madre single di due adolescenti, il quindicenne Trevor (il Finn Wolfhard di Stranger Things) e la dodicenne scienziata in erba Phoebe (McKenna Grace). La famigliola per le precarie condizioni economiche è costretta a trasferirsi nella fattoria – una cadente stamberga di inequivocabile sapore gotico – in cui viveva il padre di lei, l’ex acchiappafantasmi Egon Spengler (che era interpretato da Harold Ramis, scomparso qualche anno fa), col quale Callie era in rotta da sempre.
Egon nella comunità aveva fama di mattoide. In realtà poco a poco i ragazzini, soprattutto la geniale Phoebe, scoprono che l’apparente autoreclusione del nonno aveva ben altre ragioni, perché proprio quella apparentemente sonnacchiosa provincia potrebbe essere l’epicentro del ritorno della mai sopita minaccia dei fantasmi. E verrà il momento, recuperando le bizzarre attrezzature che sembravano antiquate già negli anni Ottanta, di ricomporre un nuovo giovanissimo team per raccogliere la sfida, e l’eredità dei padri.
Ghostbusters: Legacy svolge amorevolmente il suo compito. Che è da un lato quello di costruire una storia con una sua compiutezza narrativa (stabilendo già le coordinate per ulteriori sviluppi del franchise, come paiono suggerire le ormai inevitabili sequenze nei titoli di coda). E dall’altro di mantenere tutti i riferimenti all’universo di partenza, per cullare i fan di vecchia data – e i giovani che hanno vissuto quelle atmosfere vicariamente recuperando il film del 1984 – in un viaggio nel tempo dal sapore nostalgico per i primi, vintage per i secondi.
Il passaggio alla provincia non muta la sostanza ottantesca del film, che ha le cadenze di quel cinema fantasy legato alla Amblin di Spielberg che dava sempre più centralità al protagonismo dei ragazzini – per un pubblico che era, o voleva sentirsi, sempre più giovane. E il tramite del riferimento inaggirabile a Stranger Things, vista anche la presenza di Wolfhard, rende ancora più lineare l’innesto dell’immaginario di quarant’anni fa su quello contemporaneo.
Gli appassionati ritroveranno, quasi filologicamente ripetuti, tutti gli elementi di allora, i fantasmi (tra cui una divertente rivisitazione del pupazzo marshmallow), i marchingegni tecnologici, persino spezzoni del film del 1984, che Phoebe ovviamente vede su YouTube, percependoli non come brandelli di memoria cinematografica, bensì pezzi di vita familiare, che riannodano la sua vita a quella del bizzarro e ingegnoso nonno.
Ghostbusters: Legacy assume più i tratti da coming-of-age, in cui il confronto coi fantasmi è tanto letterale quanto simbolico. In questa operazione a tavolino però, appesantita da troppi assilli commerciali e dalla preoccupazione di accontentare i target di riferimento, manca completamente lo spirito anarcoide dell’originale. Non basta la scialba presenza di Paul Rudd come coprotagonista a dare sostanza demenziale al racconto.
E a quel punto, vista la mancanza della giusta dose di (auto)ironia, quando nel finale l’omaggio ai padri e al capostipite del 1984 prende pesantemente il sopravvento, la nostalgia si ribalta in kitsch sentimentale. Sarebbe stato meglio, fedeli allo spirito originario, non prendere troppo sul serio gli acchiappafantasmi che, in fondo, il film con Murray ed Aykroyd lo spiegava bene, non erano nient’altro che un gruppo di impagabili cialtroni. Ma lì aleggiavano ancora le tracce di un gusto satirico da National Lampoon, che il cinema algoritmo dei franchise non può obiettivamente permettersi.