Avatar, il film di James Cameron che ha riscritto le regole del cinema

Su Italia 1 alle 21.25 l’opera visionaria che ha ridisegnato il modo di fare cinema grazie all’uso del digitale. Una riflessione stringente sulla contemporaneità, che immagina un connubio possibile tra tecnologia e ragioni dell’umanesimo.

Avatar

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S’è fatto un gran parlare di Avatar ultimamente. Tutti si sono chiesti se il ciclone Avengers: Endgame sarebbe riuscito a scalzare il film di James Cameron dal primo posto quale più alto incasso della storia del cinema, con la mirabolante cifra di 2,787 miliardi di dollari – cosa che probabilmente accadrà. Primati a parte, è innegabile che Avatar, uscito ormai dieci anni fa, abbia rappresentato uno spartiacque nel cinema contemporaneo. Una conferma dell’ambiziosa propensione al gigantismo del suo autore, che gli spettatori potranno apprezzare vedendolo o rivedendolo stasera su Italia 1 alle 21.25.

Coi suoi film James Cameron è sempre riuscito a sintonizzarsi sul proprio tempo e interpretarlo. Negli anni Ottanta Terminator, raccontando la storia del cyborg Schwarzenegger, rifletteva sulla commistione tra uomo e macchina, organico e tecnologico, centrale in un’epoca che cominciava a interrogarsi sui temi del corpo e dell’identità. E Titanic, all’epilogo del secolo, ricapitolava l’intera storia del cinema, l’arte del Novecento, con un film che rimandava al kolossal per definizione, Via col vento, celebrando e allo stesso tempo dichiarando conclusa un’epoca – infatti il transatlantico, come il cinema di cui è metafora, fa naufragio.

Cameron però non è un nostalgico dei vecchi tempi. L’affondamento del Titanic segna la fine di un certo tipo di cinema, non del cinema in quanto tale. Pragmaticamente, l’apocalisse sgombra il campo dalle macerie del vecchio e lascia spazio al nuovo, per ripartire da zero. O meglio, dallo zero e dall’uno del sistema numerico binario, alla base del linguaggio degli elaboratori elettronici e delle tecnologie digitali. Il cinema che muore con Titanic, insomma, è quello analogico. Il nuovo, che esordisce insieme al nuovo millennio, è interamente digitale. Ed è il cinema di Avatar, un film smaterializzato in cui la pesantezza del corpo umano e la stessa identità degli attori in carne e ossa vengono smaterializzati grazie alla tecnica della performance capture, liquefatti e ricomposti nella leggerezza dell’avatar, il doppio digitale capace di qualunque acrobazia.

Non a caso il protagonista del film Jack (Sam Worthington) è un ex marine paraplegico. Un uomo, insomma, che nella vita reale (analogica) non può neanche camminare. E che invece attraverso il suo doppio digitale acquisisce capacità mirabolanti. Nella trama fantascientifica del film, ricordiamolo, l’avatar è un ibrido artificiale che incrocia geni umani e Na’vi, la popolazione che abita il pianeta Pandora. Per essere utilizzato, il corpo dell’avatar ha bisogno della coscienza dell’essere umano il cui dna è stato impiegato per realizzarlo. Poiché il codice genetico scelto era quello del fratello gemello di Jack, morto durante una rapina – un altro doppio, attenzione –, lui è l’unico che possa sostituirlo.

Posto in una sorta di coma indotto, la coscienza di Jack si libera, installandosi nel corpo dell’avatar. La sua missione è convincere i Na’vi a consentire l’estrazione di un minerale, di cui il loro pianeta è ricchissimo, che risolverebbe la crisi energetica della Terra. Operazione complessa, perché vivendo allo stato selvaggio in una relazione di intimità assoluta con la natura, la tribù è contraria a un intervento che danneggerebbe l’ecosistema.

La principessa Neytiri e Jack/Toruk Makto, i protagonisti digitali di “Avatar”.

I Na’vi sono esseri blu alti tre metri con tanto di coda e hanno una treccia di capelli con delle terminazioni nervose che si annodano ai corrispettivi filamenti degli animali e persino della flora. Sono cioè in grado di stabilire un legame con la natura non semplicemente ideale – secondo l’animismo tipico dei popoli primitivi – ma fisico, creando una rete neurale collettiva – più complessa del cervello umano, dice Grace (Sigourney Weaver) lo scienziato che ha progettato l’avatar – che connette tra loro tutte le specie viventi e persino i viventi coi trapassati, le cui voci è possibile percepire attraverso alcune piante.

Alla spietata multinazionale di affaristi senza scrupoli e militari fanatici, però, dell’eden non importa nulla. Loro vogliono il minerale, costi quel che costi. E Jack, che ha imparato a conoscere e rispettare quel mondo – innamorandosi dell’indigena Neytiri (Zoe Saldana) – si trova nel mezzo, costretto a prendere una posizione.

La sceneggiatura di Avatar, scritta dallo stesso Cameron, è elementare: i buoni selvaggi, i capitalisti cattivi, un eroe e una storia amore. Visti gli scenari mozzafiato e i bizzarri animali che assomigliano a dinosauri, il film sembra un incrocio tra lo Spielberg di Jurassic Park e lo spiritualismo panteista alla Terrence MalickThe New World soprattutto, che racconta una storia di colonizzati e colonizzatori. Con alla fine un’esplicita presa di posizione ecologista che potrebbe far pensare a una condanna senza appello della tecnologia.

Ma James Cameron non è mai stato un catastrofista antitecnologico. Oltretutto sarebbe grottesco un messaggio antimodernista lanciato tramite un film in cui ogni più minuto dettaglio è il risultato di un impiego prodigioso della tecnologia computerizzata, capace di dare forma a uno spazio digitale che si smarca dalla bidimensionalità del fotogramma per dare vita a un’esperienza sensoriale avvolgente.

Avatar in realtà cerca di fare qualcosa di più, chiedendosi se sia possibile contemperare la potenza della tecnologia con le ragioni dell’umanesimo. E allora, semplificando, nel film c’è una cattiva tecnologia, personificata dal colonnello Quaritch (Stephen Lang), la quale produce strumenti che amplificano la forza distruttiva dell’uomo, secondo un approccio puramente utilitaristico alla macchina. E c’è un’altra via, propugnata da Grace, secondo cui la tecnologia non è strumentale né – come nelle distopie catastrofiste – produce macchine destinate a sostituire gli esseri viventi. Si tratta di un modello in cui l’innovazione tecnologica incide sino nella biologia dell’umano, riscrivendo la sua identità e accompagnandolo a un più alto grado di consapevolezza.

Grazie alla tecnologia in Avatar l’uomo diventa capace di ricollocare la propria coscienza, dislocandola in un altro corpo – il che rende l’identità un concetto fluido, inserita nella vasta rete animistica del pianeta senziente Pandora. Anche le capacità percettive ne risultano profondamente mutate, e amplificate. Il film riflette su questioni complesse come identità, percezione, coscienza, intercettando le angosce di una contemporaneità che obbliga a interrogarsi sullo stare al mondo al tempo di quella rivoluzione digitale che sta riplasmando le nostre capacità – se in meglio o in peggio, dipenderà da noi.

Fatta la tara alle semplificazioni della favoletta antimperialista, è sul piano della visionaria messinscena digitale che Avatar offre il suo punto di vista sull’argomento in questione. E la risposta del film punta sul connubio tra umanesimo e tecnologia, per dare vita a un’umanità aumentata di nuovo conio. Il tecno-ottimista Cameron prospetta uno scenario futuribile nel quale tecnologia e biologia, inestricabilmente fuse, mutano il nostro modo di essere, la coscienza, l’identità. A patto che la tecnologia sappia connettersi, rispettandolo, col respiro profondo della natura. Altrimenti potrebbe arrivare il tempo della scienza triste e dei colonnelli Quaritch.