Che io e Francesco Renga siamo amici da oltre una ventina d’anni non è un mistero. L’ho scritto più volte, anche per non sentirmelo rinfacciare poi da qualche ben informato, e chi avesse avuto modo di vedersi il video di Angelo, ormai di quattordici anni fa, potrebbe aver riconosciuto un me stesso assai più giovane con un paio d’ali sulle spalle.
Siamo amici davvero, al punto che, all’uscita dell’ultimo album, penultimo ora che sta per uscire L’altra metà, ho preferito non scriverne subito. Il fatto è che non mi aveva convinto affatto, e che ho preferito tenermi le mie analisi per me. Le ho poi esternate in una lettera pubblica, in cui invitavo Francesco a fare di più i conti con il se stesso cinquantenne e, quindi, a provare a usare un linguaggio un po’ meno giovanilistico, sia musicalmente che, soprattutto, a livello di liriche, di lessico. Lo invitavo, senza girarci troppo intorno, a chiedere di scrivere per lui a gente come Fossati o Ruggeri, autori che con l’incedere del tempo hanno sin da subito saputo fare i conti.
A quella lettera era seguita una bella telefonata, tranquilla, come si fa tra amici che magari non la pensano sempre alla stessa maniera. Poi era uscita Nuova luce, e avevo ovviamente posto nel cassetto delle mie speranze quelle che riguardavano una svolta matura nella sua produzione. Il messaggio mi sembrava piuttosto chiaro, e in fondo la carriera era la sua, mica la mia.
Archiviato la divertente parentesi del tour con Nek e Pezzali, divertente davvero, mica per sfottere, è arrivato quest’ultimo Sanremo, nel quale Francesco ha presentato un brano con un argomento decisamente maturo: la vecchiaia avanzata del padre. Aspetto che torni, il titolo del brano, nel quale Francesco racconta di come il padre negli ultimi anni abbia perso la percezione della realtà, tornando a quando era un giovane, e di come si sia sostanzialmente stancato di vivere. E racconta ancora una volta del vuoto lasciato dalla morte della mamma, sua storia già raccontata tanti anni fa proprio sul palco dell’Ariston. L’idea di un uomo di oltre novant’anni che aspetta la morte per ricongiungersi con la propria amata, ma che nel vivere i suoi giorni da anziano si confonda nella mente con quando era giovane e aspettava il momento di potersi dichiarare con colei che poi sarebbe diventata sua moglie, e la mamma di Francesco, è qualcosa di toccante, che mi aveva molto fatto apprezzare la canzone, scritta con Bungaro, Cesare Chiodo e Rakele. Mi sembrava un brano che andasse esattamente nella direzione che avevo indicato nella mia lettera aperta, senza con questo volermi attribuire risultati che onestamente non intendevo attribuirmi.
Poi mi è arrivato in anteprima il suo nuovo lavoro, L’altra metà. E ho capito di come fossi da una parte assai lontano dall’aver influenzato con le mie analisi il percorso artistico di Francesco,e dall’altra di come in effetti Francesco avesse assai chiaro in mente che percorso intraprendere, probabilmente più a fuoco del mio.
L’altra metà è un album, il titolo già lo indica, che tende a segnare un momento importante della carriera di Francesco Renga, e al tempo stesso di cristallizzare un momento importante della vita di Francesco Renga.
Francesco, oggi, sembra un uomo risolto, rasserenato, come in effetti dovrebbe essere per chi, come lui e come me che scrivo, si toccano i cinquant’anni.
Risolto per quel che riguarda la sua vita privata, rasserenato dopo anni evidentemente complicati.
E risolto perché, fatti i conti con una voce assai importante, dimostrato quel che si poteva dimostrare, prima abbandonando il rock affrontato con i Timoria, poi praticato un pop d’autore che gli ha dato delle belle soddisfazioni, passando per l’esperienza classica di Orchestraevoce, nella quale la voce ha occupato una posizione centrale, sin dal titolo, e poi ripartendo da Canova, da un uso della voce differente, da un confronto con l’elettropop e con una modalità di scrittura decisamente più orientato all’oggi che al classico.
Francesco, sì, oggi sembra un uomo risolto, al punto di volersi davvero mettere di nuovo in gioco, anche andando a correre dei rischi che non sarebbero richiesti. Perché messa da parte la prima parte della sua carriera, sempre che di una sola carriera si possa parlare guardando a questi primi trentacinque anni passati sul palco, Francesco Renga ha deciso di confrontarsi con alcuni degli autori che oggi stanno provando a ridare linfa vitale al cantautorato e al pop. Così eccolo confrontarsi con Gazzelle, per dire, al suo fianco in Prima o poi, o con Colapesce, Ultimo o con Danti, uno per intendersi i cui principali successi sono stati cantati da Rovazzi. Intendiamoci, non che Renga provi a fare Rovazzi. Tutt’altro. Renga va oltre. Prende quella scrittura lì, semplice, diretta, a volte, se non sempre, praticata con una certa sciatteria dai diretti interessati, quando sono in veste anche di interpreti, e la fa propria, andando quindi a sommare a quella immediatezza di scrittura la sua naturale e unica capacità di usare la voce, tenere i fiati, toccare più ottave come nulla fosse, giocare con la pronuncia delle parole andando a indicare chiaramente stati d’animo differenti, dall’ansia all’ammiccamento, passando per la passione o la malinconica disillusione.
I risultati, giochiamo a carte scoperte come abbiamo fatto sempre fin qui, non tutte le volte mi convincono, col risultato che alcuni brani mi risultano difficili da decodificare, ma l’intento è chiaro, e mi sembra decisamente interessante. Se Luca Carboni, che di tutti questi giovani autori è chiaramente il padre putativo, lui che oltre trent’anni fa faceva, molto meglio di loro, esattamente la stessa cosa che loro oggi provano a fare, sta percorrendo una strada simile, andando però a rileggere il proprio modo di scrivere, come in una sorta di remake di se stesso, Renga va oltre, mette apparentemente da parte il suo essere un interprete impeccabile, una delle voci più belle del nostro panorama, con una tecnica senza eguali, per inseguire una semplicità che, badate bene, è solo apparente. Sembrare semplici, converrete con me, è una dote fuori dal comune. Un po’ perché in genere chi è alto non vuole apparire meno alto di quanto non sia, un po’ perché il pop è da sempre un linguaggio poco affascinante per chi punta all’autorialità. Ma ascoltare un brano come Bacon, per dire, dimostra che Francesco Renga è davvero capace di prendere qualcosa di complicato e renderlo quantomai naturale, o forse di fare il contrario, vallo a capire. Altri episodi degni di nota, oltre la già citata Prima o poi, con quel ritornello così gazzelliano ma al tempo stesso con una tenuta dei fiati impensabile praticata dal cantautore romano, o L’amore del mostro, così sghemba e al tempo stesso solidamente quadrata.
Se l’idea di Renga era di trovare un nuovo linguaggio, che fosse suo, certo, ma al tempo stesso intellegibile alle nuove generazioni, ecco, facile che ci sia riuscito. Poi, è chiaro, oggi le logiche che animano il mercato sono incomprensibili, e avere cinquant’anni è una variabile che sicuramente orienterà verso L’altra metà un pubblico più adulto. Ma il tentativo è nobile, e la resa, almeno a tratti, molto a fuoco.
A me, chiamami scemo, resta sempre la curiosità di sentire Renga interpretare un inedito di Ivano Fossati o Enrico Ruggeri, perché se quello che abbiamo di fronte e con il quale Renga prova a confrontarsi è uno scenario futuribile, fantascientifico, beh, io sono un luddista steampunk, di quelli che ambiscono a un mondo con carri trainati dai cavalli e treni a vapore, ma apprezzo il tentativo di non sedersi sugli allori. Di non appoggiarsi troppo, o solo, su una voce importante, ma di provare sempre a rinnovarsi, in una continua e multiforme variazione su un tema che, album dopo album, è andato sempre spostandosi qualche metro più in là.