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Detroit di Kathryn Bigelow, il razzismo e il fascino crudele della violenza (recensione)

La regista premio Oscar ricostruisce le sommosse del 1967. Un’opera formalmente ineccepibile, che non arretra mai di fronte all’orrore. Ma più che una lucida riflessione sull’America delle discriminazioni, il film è una messinscena della violenza ambigua e spettacolare.

di Stefano Fedele
27/11/2017
INTERAZIONI: 28

INTERAZIONI: 28

Detroit di Kathrin Bigelow, il razzismo strutturale dell’America

L’obiettivo di Detroit di Kathrin Bigelow è preciso: ricostruire una pagina buia di storia americana, ossia i soprusi commessi da poliziotti bianchi ai danni di uomini di colore negli scontri del 1967 nella città del Michigan, per denunciare il razzismo strutturale dell’America. Un paese che, a cinquant’anni da quegli avvenimenti, resta una polveriera di conflitti etnici e sociali. Tutto chiaro e anche lodevole. Ma se si passa dal cosa al come Detroit racconta questa storia emergono alcuni interrogativi.

Questi i fatti. Luglio 1967, gli anni del Vietnam e di aspri scontri razziali – Malcom X era stato ucciso due anni prima, nel 1968 sarebbe toccato a Martin Luther King – , a Detroit la retata in un locale frequentato da gente di colore è la miccia che fa scattare la rivolta. Il governatore del Michigan invia la Guardia nazionale, il presidente Johnson l’esercito. Dopo cinque giorni si conteranno 43 vittime e 1200 feriti. L’apice viene raggiunto nella notte tra il 25 e 26 luglio: le forze dell’ordine sentono provenire degli spari dal motel Algiers, e temendo la presenza di un cecchino (cosa già avvenuta in quei giorni) irrompono nell’edificio, trovando un gruppo di neri in compagnia di due donne bianche. I poliziotti, spalleggiati dalla guardia nazionale, cominciano un interrogatorio che sfocia in soprusi e sevizie. I responsabili saranno arrestati, ma stavolta non c’è il lieto fine della giustizia.

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La vicenda paradigmatica di Detroit finisce però per trasformarsi in qualcosa d’altro nelle mani di una regista muscolare come Kathryn Bigelow, non nuova a racconti controversi che si immergono – pensiamo a Zero Dark Thirty, che metteva in scena le torture della guerra in Iraq – negli ambigui territori della violenza.

La prima parte di Detroit (che dura complessivamente quasi due ore e mezza) ricostruisce l’antefatto, offrendo una visione d’insieme dei giorni elettrici della rivolta. La regia indaga tra volti corpi fatti con stile concitato: camera a mano, montaggio spezzettato, frequente uso dello zoom. Dal movimentato quadro d’insieme emergono progressivamente i ritratti dei singoli: un aspirante cantante rhythm and blues (Algee Smith), una guardia di sicurezza privata (John Boyega), un giovane poliziotto (Will Poulter) già nel mirino dei superiori per i suoi atteggiamenti autoritari.

Insieme ad altri, questi tre personaggi si ritroveranno insieme nella famigerata notte del motel Algiers. E lì Detroit si trasforma in un racconto perturbante, con una sequenza di quasi un’ora che ripercorre minuziosamente l’escalation di violenza perpetrata dai sadici poliziotti contro i sospettati. La rappresentazione dell’orrore comporta intrinsecamente il rischio della fascinazione, dell’esaltazione morbosa della violenza. E quindi il discrimine va posto dall’autore, che deve saper trovare il giusto equilibro tra la necessità da cronista di raccontare la brutalità senza censure e il senso di responsabilità del narratore, che deve mantenere la moralità dello sguardo e la giusta distanza da quanto viene messo in scena.

Purtroppo la Bigelow pecca di mancanza di lucidità perché si immerge nelle violenze con tono mortifero, ossessivo, quasi morboso, riprendendo sempre ogni cosa in primissimo piano. Ma a guardare i fatti troppo da vicino si perde di vista il contesto e il quadro d’insieme storico e politico. Sullo schermo allora scorre una sequenza di singoli atti, certo atroci, che però invece di riconnettersi a fenomeni sociali di più ampia portata sembrano dipendere semplicemente dalla prepotenza d’un gruppetto di esaltati. Così il poliziotto sadico interpretato da Will Poulter, più che l’esemplare di una cultura razzista condivisa, si trasforma, con la sua aria da redneck sgradevole, sudato e ignorante, in un caso patologico individuale di autoritarismo e repressione sessuale (è chiaramente disturbato dal fatto che i neri siano in compagnia di due donne bianche).

E non basta l’ultima sbrigativa parte dedicata al processo farsa per far recuperare a Detroit una prospettiva più vasta e un efficace spirito di denuncia. A quel punto, infatti, l’impatto delle lunghissime scene di tortura ha già anestetizzato il senso critico dello spettatore. E non giova la scelta della Bigelow di interpolare ogni tanto le sequenze ricostruite con immagini – almeno apparentemente – d’archivio. Perché così la finzione cinematografica finisce per mescolarsi con la cronaca, con un ulteriore effetto di confusione, in cui non si è più in grado di distinguere ciò che è vero da ciò che è finto (il film, seppure non menzognero, è una ricostruzione della realtà e non la realtà stessa) e dove tutto quanto fa (ambiguamente) spettacolo.

Tags: cinema americanoKathryn Bigelow

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