Stasera su Rai Movie alle 21.10 va in onda 1981: indagine a New York (traduzione fuorviante di A most violent year, 2014), firmato dal regista e sceneggiatore J.C. Chandor. Un nome da appuntare, già autore della tagliente riflessione sulla crisi economica Margin call (2011) e di All is Lost (2013), survival movie con un’icona del cinema anni Settanta, Robert Redford.
1981: indagine a New York riporta indietro le lancette dell’orologio agli anni Ottanta. È da quel decennio che bisogna ripartire per capire l’America contemporanea, quando un paese traumatizzato negli anni Settanta dall’onda lunga d’una crisi ideale culminata nel Watergate trovava gli anticorpi per rilanciarsi, gettandosi in un’euforica nuova espansione, ideologica ed economica, nel segno del reaganismo. È la stessa epoca su cui s’è focalizzato lo sguardo del Bennett Miller di Foxcatcher, altro duro apologo recente sull’identità del paese. Miller e Chandor sono tra i pochi autori non immediatamente incasellabili del cinema americano contemporaneo, né mainstream né fastidiosamente indie. E posseggono entrambi una non comune moralità dello sguardo, che si posa sugli uomini e sulle loro storie radiografandone i chiaroscuri con sensibilità e rigore.
In 1981: indagine a New York Abel Morales (Oscar Isaac, magnetico) è un ispanoamericano che ha ottenuto ciò che l’american dream promette, perché partendo dal basso è diventando un imprenditore di successo nel settore degli olii combustibili. Non si è mai piegato al compromesso, cosa non semplice visto che il suo è un mestiere proletario, fatto da gente che appartiene a quella strada dove legalità e illegalità spesso s’intrecciano. E infatti, nonostante la reputazione immacolata, Abel è sposato ad Anna (Jessica Chastain, ottima come sempre), che proviene da una famiglia di gangster, da cui il marito però ha scelto di tenersi alla larga, certo (forse illudendosi) che questo basti a preservalo da qualunque coinvolgimento.
Il suo successo ha creato malumori: i camion dell’azienda sono diventati bersaglio di continue rapine e un ambizioso procuratore distrettuale (David Oyelowo) sta conducendo un’indagine su Morales, pregiudizialmente certo che la sua attività sia corrotta. E questo proprio nel momento in cui Abel ha messo in gioco tutte le sue fortune per acquistare un impianto di stoccaggio a Brooklyn che gli consentirebbe di ingrandirsi ulteriormente.
Chandor crea un cortocircuito tra un protagonista che continua ostinatamente a comportarsi correttamente, fiducioso dell’immacolatezza dello spirito del capitalismo, e un ambiente sociale che corrisponde ben poco alle sue granitiche certezze. Basta vedere la scena in cui Abel incontra i suoi competitors per intimargli di smettere di fare concorrenza sleale: facce di gente comune riunita intorno a un tavolo, con un’iconografia che rimanda a un mafia movie di Scorsese, perché è identico quel milieu italoamericano in cui buoni e cattivi stanno una accanto all’altro, e talvolta non solo accanto. Abel, pur cercando di fare finta di niente, al fondo sa come stanno le cose. E quando il suo braccio destro Andrew (un’icona del cinema Settanta-Ottanta, Albert Brooks) lo invita a fare una passeggiata per discutere, lui commenta: “Siamo a questo punto? Dobbiamo parlare camminando, come due gangster?”.
Morales mantiene la schiena dritta, questa è la sua filosofia di vita. La stessa che spiega in una sequenza illuminante ai suoi venditori, ai quali insegna a guardare negli occhi i clienti, “perché non c’è cosa più difficile che dire la verità a qualcuno guardandolo negli occhi”. Sotto l’immagine positiva e trasparente che il protagonista ha di quel mondo scorre però una realtà più opaca: nella quale i problemi non dipendono solo da violenza e corruzione, ma dall’equivoco connaturato a un modello sociale regolato da una feroce lotta darwiniana, in cui il successo di qualcuno va a scapito dei deboli che soccombono.
Ogni passaggio è reso da Chandor con uno stile privo di enfasi, che privilegia le psicologie e i rapporti umani sul dinamismo dell’azione e annega costantemente i personaggi in una fotografia cupa, silenziosa, che incrina visivamente le certezze dell’etica che Abel continua a professare. Questo dà a 1981: indagine a New York un sapore dubitativo, sfumato, che evita perciò di sconfinare anche nella nettezza d’una requisitoria anticapitalista.
Morales viene ritratto con ammirazione, come il tipo d’uomo che ognuno aspirerebbe a essere, onesto, premuroso verso la famiglia e volitivo come imprenditore. Eppure non si può non rilevare come la sua rettitudine poggi su un pragmatismo che manca della necessaria consapevolezza circa le conseguenze dei propri atti. È la ragione che spinge la moglie a rinfacciargli la cecità con cui persegue il suo american dream e Andrew a chiedergli il perché del suo inesausto impegno. Lui non capisce il senso della domanda, per lui crescere ed espandersi sono un’attitudine automatica e automaticamente giusta. Forse il significato di questo interrogativo “esistenziale” si chiarirà ad Abel dopo l’ultimo colpo di scena (che non riveliamo), che dice icasticamente qualcosa sull’ambigua relazione che il successo intrattiene con la sopraffazione. Ma non è un finale che miri a separare il bene dal male o a denunciare una supposta intrinseca malvagità della logica capitalista. È solo il modo per restituire la complessità dell’esistente attraverso quel filtro intriso di sommessa moralità che talvolta il cinema riesce ancora a frapporre tra la realtà e lo sguardo.
1981: indagine a New York (2014), di J.C. Chandor, con Oscar Isaac, Jessica Chastain, Albert Brooks, stasera in tv su Rai Movie, ore 21,10.