Civiltà perduta di James Gray, tratto dal libro di David Grann, La città perduta di Z, ricostruisce la vera storia di Percy Fawcett, l’esploratore che a inizio Novecento ricercò in Amazzonia le tracce d’un antico regno, forse El Dorado. Maggiore dell’esercito britannico, Fawcett (Charlie Hunnam) fu reclutato nel 1906 dalla Regia Società Geografica per una missione in Sudamerica, con l’obiettivo di stabilire il confine tra Bolivia e Brasile, per evitare una guerra che avrebbe danneggiato gli interessi economici dell’Inghilterra.
La scoperta di alcuni reperti lo convinse dell’esistenza d’una civiltà indigena prosperata nel mezzo della foresta, e da quel giorno dedicò l’intera esistenza alla sua ossessione, tornando più volte in quelle terre, l’ultima nel 1925 – definitiva, scomparirà per sempre – insieme al figlio Jack (Tom Holland, il nuovo Spiderman).
Civiltà perduta sulla carta racconta una grande avventura, ma resterebbe deluso chi s’attendesse uno spettacolo hollywoodiano tradizionale. Il film solo all’apparenza rispetta i canoni d’una narrazione classica, con la descrizione dele peripezie d’un uomo coraggioso, legatissimo alla famiglia e alla moglie Nina (Sienna Miller, ottima). Ma Gray erode dall’interno la struttura da racconto d’avventure. In primo luogo attraverso le scelte figurative: una fotografia sottotono (di Darius Khondji), che non ritrae la foresta come spazio d’una sfida entusiasmante, ma la restituisce come luogo intimo, mentale, prossimo al cuore di tenebra dell’Apocalypse Now di Coppola, in cui l’uomo, smarrita la propria identità, scopre un nuovo modo di stare al mondo.
L’altra scelta è contenutistica: Fawcett sconfessa la cultura – conservatrice, classista, colonialista – di cui la Regia Società Geografica è espressione, è un uomo illuminato che sostiene la pari dignità tra esseri umani e crede all’esistenza d’una civiltà presumibilmente più antica di quella occidentale. Fondamentale è anche il ruolo della moglie, donna forte che accetta senza vittimismo le lunghissime assenze del marito e anzi vorrebbe partire con lui, mettendo in dubbio le tradizionali differenze tra uomo e donna.
Lo sguardo decisamente rivolto all’oggi, Civiltà perduta è un film nutrito di femminismo e anticolonialismo, sebbene proprio la moglie, alla partenza del marito, gli dedichi L’esploratore, del colonialista Kipling: “Qualcosa di nascosto. Va’ e trovalo, va’ e cerca dietro le grandi catene. Qualcosa si è perso dietro le grandi catene. Si è perso e ti sta aspettando. Va’”. Ma quel testo esprime il nucleo dell’ossessione di Fawcett, che fa pensare anche al cinema di Herzog, di cui però non viene replicato il titanismo.
Civiltà perduta è quasi frustrante nella sua ricercata antispettacolarità, con l’El Dorado mai raggiunto, vicinissima utopia eppure inattingibile. Restano alcune pagine avventurose, l’incontro con gli indigeni, il rapporto cameratesco coi propri uomini – l’Henry Costin d’un irriconoscibile Robert Pattinson. Ma il nucleo tematico di Civiltà perduta è un altro, la descrizione d’un ambiente sociale segnato da paternalismo e descriminazione; e un ambiente familiare di rapporti sofferti – con moglie e figlio maggiore –, ma sempre adulti, paritari. Charlie Hunnam non è molto adatto al ruolo dell’esploratore, pensato per Benedict Cumberbatch, ma se ne apprezzerà lo sforzo compiuto per entrare, anche fisicamente, in un personaggio di complessa, stridente psicologia.