Prima del terzo Oscar vinto per il ruolo di Margaret Thatcher in The Iron Lady, Meryl Streep aveva avuto un’altra delle sue innumerevoli nomination (venti in tutto) per un’altra lady di ferro, la Miranda Priestly direttrice della rivista di moda Runway in Il diavolo veste Prada. E probabilmente avrebbe già allora meritato il riconoscimento, per un ruolo assai indovinato e fuori dai suoi usuali schemi “impegnati”.
Il film, oggi in prima serata su Canale 5, è tratto dal romanzo omonimo di Lauren Weisberger, che faceva tesoro del suo periodo di assistentato ad Ann Wintour per raccontare dall’interno il dorato, feroce mondo della moda. Questa è la ragione per cui tutti hanno sempre detto che il personaggio di Meryl Streep fosse un calco della direttrice di Vogue. In realtà è il risultato di un miscuglio, come l’attrice stessa ha raccontato tempo fa a Variety, tra la modella Carmen Dell’Orefice e l’algida autorevolezza di Christine Lagarde, alle quali abbinò genialmente una voce quasi sussurrata, presa in prestito da Clint Eastwood (“Lui non alza mai la voce. Così tutti sono costretti a chinarsi verso lui per ascoltarlo e diventa automaticamente la persona più potente nella stanza”), aggiungendo, per renderla divertente, l’ironia tagliente di Mike Nichols.
Il risultato è una figura sfuggente, di indefinibile crudeltà, sulla quale chiunque può proiettare la sua personale esperienza di superiore o capoufficio aguzzino. Un personaggio che, vista anche la capigliatura d’un bianco immacolato, gelido, finisce inevitabilmente per far pensare anche a Crudelia De Mon.
Ne Il diavolo veste Prada l’obiettivo delle continue angherie di Miranda è Andy Sachs (Anne Hathaway, nel ruolo che l’ha definitivamente lanciata), brillante neolaureata proveniente dal Midwest col sogno di sfondare nel giornalismo nella Grande Mela. Con la sua aria di superiorità intellettuale e i suoi maglioni infeltriti, è quanto di più lontano possa esserci dal mondo rutilante e ossessionato dall’apparire di Runway. La prima lezione al suo snobismo culturale giunge proprio da Miranda, col celebre monologo (voluto dalla Streep) sul pullover ceruleo di Andy: la ragazza l’ha scelto anonimo e trasandato per sottolineare la sua estraneità alla fatuità della moda, ma quel colore, come le dimostra con elegante ferocia il suo capo, è il frutto di scelte compiute a tavolino dagli stilisti anni prima.
Ed è riposto anche qui il fascino intramontabile de Il diavolo veste Prada, nato come film a medio budget e trasformatosi in un classico che, ancora dopo dieci anni, può reggere come oggi la prima serata su Canale 5, certo di fare il pieno d’ascolti. Fascino che sta nel suo porsi a metà del guado: né acritica esaltazione della bella vita modaiola alla Sex and the City (anche se il regista David Frankel ne ha diretto diversi episodi, e si vede), né accigliata presa di distanza alla Prêt-à-porter di Robert Altman.
Il film gioca sulla seduzione che il mondo luccicante della moda esercita su chiunque – come dice Miranda, “tutti vogliono essere come noi” -, ed è del tutto naturale che Andy si faccia irretire da una realtà di lusso e bellezza, tra feste esclusive e sfilate a Parigi e, a poco a poco, impari a vestirsi in modo decente, approfittando dei privilegi che quel cerchio magico può offrirle.
Allo stesso tempo, Il diavolo veste Prada racconta, rendendola giusto un po’ più graziosa, la competitività dell’ambiente del fashion. Non siamo all’eterno chiacchiericcio rilassato di Sex and the City, nel quale le protagoniste passano da un cocktail party a un vernissage e non lavorano mai, ma nel bel mezzo di un’iperattività frenetica, nella quale ogni singolo istante è scandito da compiti impossibili da eseguire immediatamente (come scovare una copia del nuovo romanzo di Harry Potter; quello non ancora pubblicato, naturalmente).
Il diavolo veste Prada non si spinge oltre il limite, volutamente non graffia fino in fondo, altrimenti non avrebbero acconsentito a essere della partita lo stilista Valentino o la supermodella Gisele Bündchen. Ma il ritratto d’ambiente se non velenoso è credibile, con le manovre dietro le quinte per far fuori gli avversari, le carriere degli stilisti che possono crollare sotto il broncio di disapprovazione della direttrice arbiter elegantiarum, la vita privata che comincia ad annaspare nel preciso momento in cui si diventa bravi sul lavoro, come dice ad Andy il collega Nigel – a proposito, la misura recitativa con cui Stanley Tucci incarna la figura del creativo omosessuale, lontana da stereotipi e banalità, è rimarchevole.
E seppure nel finale viri sul dolciastro, Il diavolo veste Prada è un film da vedere. Tra i suoi meriti c’è anche quello, nonostante Lauren Weisberger abbia scritto un seguito (La vendetta veste Prada), di resistere alla tentazione del sequel fotocopia. E la sua unicità ha certamente contribuito a renderlo il classico contemporaneo che è.
Il diavolo veste Prada (2006), diretto da David Frankel, con Meryl Streep, Ann Hathaway, Stanley Tucci, Emily Blunt, stasera su Canale 5 alle 21.10.