Adam Driver, il Kylo Ren di Star Wars, diventa in Paterson di Jim Jarmusch un compassato autista d’autobus. La sua vita si svolge secondo una precisa routine, fotografata nella tranche de vie d’una settimana, da un lunedì all’altro, scandita da tappe ripetitive. Sveglia abbracciato alla moglie Laura (Golshifteh Farahani), colazione sempre uguale, poi lavoro, pausa pranzo sulla panchina davanti alle cascate del fiume Passaic, ritorno a casa, passeggiata col cane fino al pub, birra e quattro chiacchiere col barista. Il giorno dopo, lo stesso.
Il film è affascinato da iterazioni e corrispondenze. Basti pensare che la città in cui è ambientata la storia si chiama Paterson, in New Jersey, e Paterson è il nome del personaggio di Adam Driver che, ironia supplementare, è un autista (driver, appunto). Come se non bastasse, Paterson tutti i giorni incrocia una coppia di gemelli. E la moglie Laura è fissata con le simmetrie, e colora in bianco e nero ogni oggetto, dagli abiti alle tende sino alle decorazioni dei cupcake.
Questa uniformità nasconde un segreto: il Paterson di Adam Driver insegue la poesia delle piccole cose, scrivendo continuamente versi istigati dalle epifanie del quotidiano, una scatola di fiammiferi, le cascate, un incontro. Jarmusch mostra persino in sovrimpressione i testi (in realtà di Ron Padgett), e sono i soli momenti in cui la regia minimale, fatta di inquadrature fisse e placide, ha un’impennata lirica, con immagini diverse che s’impastano l’una sull’altra.
La cittadina di Paterson è di grande ispirazione. Pare una provincia sonnacchiosa, ma riserva sorprese: sull’autobus si può svolgere una conversazione sull’anarchico italiano Gaetano Bresci, che uccise il re Umberto I e visse a Paterson (il dialogo è tra Kara Hayward e Jared Gilman, i protagonisti di Moonrise Kingdom, un omaggio che indica sotterranee affinità tra il cinema di Jarmusch e di Wes Anderson). L’autista fa incontri singolari: una ragazzina appassionata di poesia – parlano di Emily Dickinson e Frank O’Hara -, uno scrittore giapponese giunto in New Jersey sulle tracce di William Carlos Williams, che intitolò Paterson una sua raccolta di liriche.
Il film ha un sapore orientale (non nuovo in Jarmusch, autore di film come Ghost Dog), una cadenza meditativa cesellata come un haiku, le brevissime, folgoranti poesie che sintetizzano la musica dell’esistenza nascosta sotto la crosta apparentemente banale del quotidiano. Governato dallo sguardo distaccato di Adam Driver, Paterson è strutturato come una poesia delle piccole cose: e gli accadimenti che si ripetono da un giorno all’altro suonano come le rime d’un impercettibile poema della realtà.
Jim Jarmusch ha composto un film rasserenato, quieto. Ma qualcosa non funziona. Senza televisori e cellulari, con baristi filosofi e scrittrici in erba a ogni angolo, Paterson è chiaramente una cittadina immaginaria. Siamo sicuri che in una vera, caotica metropoli contemporanea questa terapia della poesia basterebbe a rendere felici? Seppur formalmente affascinante, Paterson è un film consolatorio: facile fare il panegirico delle piccole cose, quando ci si rifugia in un confortevole mondo ideale, senza misurarsi con le stridenti contraddizioni del reale.