In Captain Fantastic, Ben (Viggo Mortensen) ha rifiutato la civiltà e vive coi sei figli nei boschi. Impartisce ai ragazzi un’educazione rousseauiana di immersione nella natura e letture impegnative che stimolino il pensiero critico. E insieme, invece del Natale, festeggiano il compleanno di “zio” Noam Chomsky. Intanto sta per svolgersi, organizzato dai suoceri, il funerale della moglie Leslie, suicidatasi perché sofferente di disturbi bipolari. Ben non vorrebbe andarci: ma lei avrebbe odiato la funzione religiosa predisposta dai genitori. Allora, per far rispettare le sue ultime volontà, Ben e famiglia arrivano alle esequie, decisi a farle fallire.
Captain Fantastic attinge alle esperienze del regista Matt Ross, cresciuto dai genitori in una comune. Le ascendenze del racconto sono evidenti: oltre alla pedagogia di Rousseau c’è l’ideologia della wilderness, quel mito della vita libera e selvaggia che già nell’Ottocento si colora di tinte anticapitalistiche attraverso la filosofia di Thoreau. L’autore di Walden. Vita nei boschi abbandona la città per ritrovare le radici d’una vita essenziale: “precursore – ha scritto Tommaso Pincio – di tutti gli americani che prima e dopo l’era hippie hanno fatto ritorno alla natura opponendo un’economia della frugalità al consumismo forsennato”.
Ben è la versione aggiornata di questo mito, rinvigorita con iniezioni di non violenza, controcultura e pensiero antitecnologico. I risultati sono un personaggio e una vicenda ritagliati su un preciso target da cinema indipendente – anteprima al Sundance, ovviamente -, che infatti ha salutato Captain Fantastic con empatia, dal Premio per la regia a Cannes nella sezione Un Certain Regard a quello del pubblico al festival di Roma.
Captain Fantastic è volutamente un titolo da film di supereroi. Infatti Ben al funerale sfoggia uno sgargiante completo rosso, versione tardo-hippie della calzamaglia del supereroe. Un supereroe anticapitalista arrivato per sconfiggere il conformismo benestante dei genitori di Leslie. Anche i suoi figli – che non a caso indossano delle maschere – sono dotati di poteri eccezionali. Come saper commentare all’impronta il Bill of Rights davanti a balbettanti pari età cresciuti a razioni abbrutenti di videogiochi.
Captain Fantastic racconta la civiltà occidentale dal punto di vista di chi è fieramente ritornato a uno stato di natura (più cultura rigorosamente libresca). Un’esistenza nutriente che però, come Ben dovrà riconoscere, rischia di sfornare re filosofi emotivamente disadattati, chiusi dentro la bolla di un’utopia fuori del tempo (infatti il figlio maggiore vuole andare all’università).
Captain Fantastic è un film accattivante ma schematico. Basta guardare la messa in scena della natura, tutta scenari mozzafiato ed estetizzanti effetti controluce. Una natura maestosa ed elettrizzante: ma che non va oltre un’idea semplicistica e un po’ irreale da National Geographic.
I temi in gioco sono spinosi – il confronto tra stili di vita e modelli pedagogici agli antipodi -, ma il film li riadatta a misura d’un teorema accomodante in cui alla fine, nonostante tutto quello che Ben predica, i sentimenti hanno la meglio su idee e princìpi. Così, nonostante il brillante andamento picaresco del racconto (le divertenti “missioni” di Ben e figli), resta l’impressione di aver assistito a un racconto più furbo che lucido.