Venezia 2016, oggi in concorso François Ozon e un western all’olandese

Al festival oggi è il giorno di Paolo Sorrentino e “The Young Pope”. Ma c’è dell’altro. In concorso “Frantz”, del francese Ozon, che s’ispira a un classico di Lubitsch; e“Brimstone”, western europeo con Dakota Fanning e Guy Pearce. Fuori concorso l’eclettico James Franco e Ulrich Seidl.

Venezia 2016, oggi in concorso François Ozon e un western

INTERAZIONI: 7

Il festival di Venezia 2016 giunge al primo weekend del suo nutrito programma. Ieri ha colpito soprattutto Nocturnal Animals di Tom Ford: la sua storia di illusioni e vite sbagliate attraverso un racconto intimistico che si trasforma in un thriller è piaciuta molto. “Il film è strutturato magnificamente – ha scritto Variety – con il passato che alimenta il presente, e la finzione la realtà”. E l’Hollywood Reporter: “David Lynch incontra Alfred Hitchcock che incontra Douglas Sirk”. Mentre Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera loda “un film molto complesso, curato, perfetto nei dettagli, che fa i conti con questa violenza americana, in cui la vendetta diventa uno dei fondamenti della loro cultura”. Tra i film finora passti in concorso Nocturnal Animals è stato uno dei più apprezzati e non è da escludere che possa portare a casa un premio di Venezia 2016.

Oggi per il festival in realtà è una giornata anomala, nel senso che l’appuntamento più atteso, almeno per il pubblico italiano, non è cinematografico ma televisivo. Stiamo parlando della proiezione fuori concorso delle prime due puntata in anteprima di The Young Pope, la serie tv diretta da Paolo Sorrentino, un appuntamento che spinge a fare delle riflessioni sul rapporto tra cinema e tv, per le quali rimandiamo qui a un articolo dedicato. Ma la programmazione della giornata è comunque variegata, a partire dai due film in concorso, il raffinato Frantz di François Ozon e l’inatteso Brimstone, western all’olandese di Martin Koolhoven.

Frantz, di François Ozon

Confesso che il solo fatto che Frantz di François Ozon si ispiri liberamente a L’uomo che ho ucciso (1932) di Ernst Lubitsch, lo rende ai miei occhi un film imperdibile. Per una volta Lubitsch piegava il suo abituale sarcasmo a toni toccanti e sensibilissimi, per raccontare la vicenda di un reduce di guerra francese che si reca in Germania per conoscere i genitori d’un soldato tedesco che ha ucciso, restandone sconvolto.

Nel film di Ozon il tema è il medesimo: poco dopo la fine della Prima guerra mondiale, terminata rovinosamente per la Germania, Anna si reca tutti i giorni sulla tomba del fidanzato Frantz, caduto al fronte sul suolo d’Oltralpe. Un giorno giunge un ragazzo francese a lei sconosciuto, Adrien, che reca dei fiori sulla stessa tomba. Il forte legame che entrambi avevano con Frantz li fa avvicinare, e grazie ai segreti custoditi da Adrien, Anna scopre degli aspetti del suo fidanzato che le erano sconosciuti. Ma la presenza di un francese è destinata a non passare inosservata nel piccolo paesino di Anna, frustrato per la sconfitta nel conflitto.

Frantz è la prima opera in bianco e nero della carriera di François Ozon e la seconda in costume, dopo Angel. Il regista era partito dal dramma di Maurice Rostand, all’origine anche di L’uomo che ho ucciso, e solo successivamente ha scoperto l’esistenza del film di Lubitsch. “Quando ho scoperto che lo spettacolo era già stato adattato da Lubitsch la mia prima reazione è stata quella di lasciare perdere. Come potevo competere con Lubitsch?”, ha commentato Ozon. Ma L’uomo che ho ucciso è focalizzato sul senso di colpa del ragazzo, mentre lui voleva fare un che raccontava soprattutto la ragazza, e attraverso di lei il tema della menzogna. “In un’epoca ossessionata dalla verità e dalla trasparenza, desideravo da tempo fare un film sulla menzogna“, ha aggiunto François Ozon. E poiché è incentrato sul personaggio di Anna, Frantz diventa anche, come altre storie del regista francese quali il recente Giovane e bella, il racconto di un’educazione sentimentale al femminile. Frantz uscirà in Italia il 22 settembre, distribuito da Academy Two.

Brimstone, di Martin Koolhoven

Dopo il musical di La La Land e la fantascienza di Arrival, è la volta nel concorso principale di Venezia 2016 di un altro genere cinematografico, il western. Si tratta di Brimstone. Che però non è americano, perché il regista, Martin Koolhoven è olandese, e sebbene i protagonisti siano statunitensi, Dakota Fanning, Guy Pearce, Kit Harington e il film parlato in inglese, il film è prodotto da una confederazione di stati europei, dai Paesi Bassi alla Germania alla Svezia.

L’eroina di Brimstone è Liz, una donna forte e coraggiosa che nelle terre selvagge del vecchio West è perseguitata da un vendicativo e misterioso predicatore, un fanatico che diventa la sua nemesi. Ma Liz è una donna volitiva e caparbia, tutt’altro che una vittima predestinata, pronta a reagire al suo avversario, per conquistare quella vita migliore che sente di meritare per sé e per sua figlia.

Certamente un western che non sia targato Usa non può essere ritenuto un’anomalia proprio in Italia, il paese che grazie a Sergio Leone è stato capace di importare un genere culturalmente del tutto estraneo e trasformarlo in qualcosa di diverso. E Martin Koolhoven è certamente molto legato al cinema di Leone. Basta andare sul suo profilo twitter, e si scoprirà che la frase di presentazione che si è scelto è un’immortale battuta del Clint Eastwood de Il buono, il brutto, il cattivo: “Il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica e chi scava. Tu scavi”. “Ogni regista di cinema adora i western – ribadisce Martin Koolhoven – ma è difficile creare qualcosa di originale con un genere che vanta così tanti e grandi predecessori. Volevo che fosse originale e olandese, tanto quanto gli spaghetti western sono italiani. Andando avanti con la sceneggiatura la storia è diventata sempre più coinvolgente e trascinante. Brimstone è un film sulla religione e sulla violenza”. Ma se quelli italiani venivano chiamati, appunto, spaghetti western, quale definizione ci si inventerà per un film di pistoleri all’olandese?

Gli altri protagonisti: Ulrich Seidl e James Franco

Fuori concorso arriva Ulrich Seidl, che va a fare caccia grossa in Africa con il documentario Safari. Il suo obiettivo non sono naturalmente gli animali, ma questi tedeschi e austriaci medioborghesi che vanno in vacanza nelle distese selvagge della savana alla ricerca di adrenalina, e s’appostano frementi nella boscaglia sperando di centrare un’antilope, un’impala, una zebra. “Con Safari – ha dichiarato il regista austriaco – non mi interessava tanto mostrare i ricchi, gli aristocratici, gli sceicchi e gli oligarchi che praticano la caccia grossa in Africa, quanto il cacciatore comune. Da molti anni ormai, cacciare in Africa è diventato alla portata del cittadino medio occidentale. Volevo scoprire e mostrare cosa spinge queste persone a cacciare, e perché ne possono addirittura diventare ossessionate. Ma strada facendo è diventato anche un film sulla pratica di uccidere: uccidere per piacere, senza mai affrontare il pericolo, uccidere come una sorta di liberazione emotiva”. Conoscendo lo stile di Ulrich Seidl, spassionato, ortogonale, oggettivo, è facile presumere che il suo sguardo si poserà atono e impietoso su questi cacciatori improvvisati, con la stessa modalità implacabile di film come Canicola, che ha raccontato l’altra faccia, che non vorremmo conoscere, della periferia di un paese civilizzato come l’Austria. Ed è probabile ne emerga un ritratto sconfortante, nel quale ogni gesto diventa paradossale, ridicolo, miserabile.

Nella sezione Cinema nel Giardino arriva un altro film molto atteso, In dubious battle, diretto e interpretato dall’estroso James Franco, che al festival di Venezia nel 2013 era stato in concorso con una sua precedente regia, Child of God. Stavolta arriva con un film dal cast stellare, Bryan Cranston di Breaking Bad, Ed Harris, la leggenda Robert Duvall, Vincent D’Onofrio, Sam Shepard, l’ex Disney star Selena Gomez. Dopo essersi misurato coi romanzi di William Faulkner (Mentre morivo, L’urlo e il furore), James Franco temerariamente prosegue nel suo corpo a corpo cinematografico con la grande letteratura americana del Novecento. Stavolta tocca a John Steinbeck e al suo In dubious battle (noto in italiano come La battaglia), racconto degli anni della Grande Depressione e delle terribili condizioni in cui sono costretti a lavorare i braccianti agricoli nella California dell’epoca, che due attivisti del sindacato cercano di portare dalla parte dell’organizzazione. James Franco ha detto di aver scelto di trasporre questo libro dopo aver recitato a Broadway Uomini e topi, sempre da Steinbeck. Ed è certo singolare, e sulla carta interessante, la sua scelta di parlare di sindacato e lotte dei lavoratori, un tema che, dopo vecchi classici quali Furore di John Ford (ancora Steinbeck) è progressivamente sparito dal radar del cinema hollywoodiano. Questo a conferma della fama da irregolare di James Franco, che è un attore e regista dall’attività frenetica (dare un’occhiata alla sua biografia), che passa dal mainstream di Spider-Man ad Harmory Korine, Werner Herzog e persino un’incredibile partecipazione al serial General Hospital.