Per un giorno a Venezia 2016, almeno per il pubblico italiano, l’ordine degli addendi cambia e i più attesi non sono il cinema e i film in concorso, ma la tv e quel fuori concorso che è The Young Pope, la miniserie in dieci puntate firmata da Paolo Sorrentino, prodotta da Sky, Hbo e Canal+. Nella Sala Grande del Palazzo del Cinema al Lido saranno proiettati i primi due episodi della storia di Lenny Belardo alias Pio XIII (Jude Law), il primo papa americano della storia, giovane, fascinoso, che sembra essere stato eletto più per strategia mediatica che per rispondere a una domanda di fede e spiritualità. Ma come si sa le vie del Signore (e i corridoi del Vaticano) sono infinite e le apparenze possono ingannare.
La presenza in pompa magna di un prodotto televisivo in un tempio del cinema per antonomasia come il festival di Venezia, e l’ulteriore cortocircuito rappresentato da un grande autore dallo stile inequivocabilmente cinematografico come Paolo Sorrentino che si dedica a un racconto per il piccolo schermo, spingono a qualche breve riflessione sulla relazione che intercorre oggi tra i due media.
Prima di tutto, cos’è The Young Pope, soprattutto se trasmesso su grande schermo? È tv? È cinema? Quanto valgono ancora queste distinzioni? Ha senso mantenere l’antica gerarchia dimensionale tra grande e piccolo schermo, quella che faceva dire al geniale Billy Wilder “adoro la televisione, finalmente c’è qualcosa che il cinema può guardare dall’alto in basso”? Secondo alcuni si tratta di distinzioni superate: anche perché oggi col digitale le immagini sono rese democraticamente disponibili per qualunque dispositivo, e un film pensato in cinemascope lo si può miniaturizzare e vedere sul cellulare. E per le stesse ragioni le narrazioni transmediali teorizzano e mettono in pratica storytelling che attraversano diversi media, con il racconto trasformato nel frutto babelico di svariati linguaggi e formati.
Inoltre, se pensiamo alla costruzione degli intrecci, è noto come la televisione stia dimostrando una creatività che nulla ha da invidiare al cinema, ma che, al contrario, lo influenza, grazie alla serializzazione dell’architettura narrativa che dilaga in tutte le direzioni e racconti, con quei franchise cinematografici fatti di film che sono parti d’un continuum, modello Bourne o Harry Potter (anche se forse è vero che non c’è niente di nuovo sotto il sole, se si pensa che i primi serial cinematografici, sull’esempio dei romanzi a puntate ottocenteschi, risalgono agli anni Dieci del Novecento).
Al cinema si è andati anche oltre il semplice concetto di serial: in un universo complicatissimo come quello Marvel, per esempio, il singolo film appartiene non solo a una serie determinata, ma anche a un sistema molto più vasto, per cui un episodio, poniamo, di Capitan America, racconta contemporaneamente la propria storia e riporta brandelli di vicende che appartengono alla serie degli Avengers. Così la coerenza narrativa del macrosistema è salva e lo è soprattutto quella, assai più redditizia in termini di identità ed economia, del brand.
The Young Pope a Venezia 2016 è la conferma che tv e cinema sono assai più vicini di quanto uno sguardo tradizionalista e nostalgico sia disposto ad ammettere. Non è un caso che i protagonisti dell’operazione, il direttore del festival di Venezia 2016 Alberto Barbera e Paolo Sorrentino, insistano sul concetto di rischio. “È un grande piacere, oltre che un privilegio – ha dichiarato Barbera – poter presentare alla Mostra del Cinema le prime due puntate dell’attesissima serie televisiva di Paolo Sorrentino. Un autore che ha il coraggio di rischiare, affrontando da par suo – cioè, senza timori e con lo spirito di sempre: creativo e innovativo – il linguaggio della serialità che rappresenta la nuova frontiera espressiva con la quale molti autori, perlopiù stranieri, hanno già scelto di misurarsi. Il risultato non mancherà di suscitare emozioni sincere e, soprattutto, una grande, tonificante e inesausta sorpresa”.
Paolo Sorrentino è sulla medesima lunghezza d’onda: «È un onore per me tornare a Venezia. Ci sono stato con il mio primo film e ci torno ora con la mia prima serie televisiva. Non credendo alle coincidenze penso piuttosto che, oggi come allora, la Mostra si prenda il rischio di scegliere. Quindici anni fa, lo fece selezionando l’opera prima di un giovane regista, quest’anno ribadendo la sua apertura verso la televisione riconoscendo alle serie il giusto ruolo nell’evoluzione del linguaggio visivo».
Poi, naturalmente, ci sono diversi modi di vedere la questione. Woody Allen, di passaggio a Venezia, dichiara in un’intervista al Corriere della Sera che “il cinema è stanco, vola basso”, e dà la colpa alla tv che “ha fatto scendere la media del gusto”. Come dire che sì, cinema e tv si stanno avvicinando, ma all’insegna dell’abbassamento della qualità. Però è lo stesso Allen che, guarda caso, tra poco debutterà in tv con Crisis in Six Scenes, una serie realizzata per Amazon.
Dall’altro lato c’è chi, come Wim Wenders, difende il fascino della sala, del tempio buio e silenzioso nel quale la fruizione del film possiederebbe ancora qualcosa di liturgico: “La sala resta l’ultimo rifugio in cui bisogna abbandonare il telefono, i messaggi, il computer. Potersi concentrare su una sola storia, senza la distrazione della rete”.
Questo è un altro aspetto importante della questione: perché per stabilire se cinema e tv siano o meno sul punto di sovrapporsi, non bisogna considerare solo l’omogeneità dei meccanismi narrativi, ma anche le modalità di fruizione. Diversi studiosi sostengono l’unicità del cinema non basandola sul linguaggio o i formati, bensì focalizzandosi sul concetto di “esperienza” cinematografica. Quella cioè che porta a considerare il film un’opera, un testo unitario che incoraggia una fruizione organica, e non spezzettata come accade in distratte visioni casalinghe tra una telefonata e un messaggio su WhatsApp. Una visione che ha bisogno di uno spettatore culturalmente predisposto, orientato ad assistere a una proiezione attenta e meditata. In tal senso forse, anche se non è tanto una questione di luogo ma soprattutto di attitudine mentale, lo spazio della sala favorisce tuttora un’esperienza speciale. Una sala come quella in cui verrà proiettato The Young Pope al festival di Venezia 2016. Dove tv e cinema saranno ancora più vicini.