La sequenza indimenticabile di La 25ª ora (25th Hour, 2002) di Spike Lee è quella in cui i coprotagonisti Frank (Barry Pepper) e Jacob (Philip Seymour Hoffman) parlano sul davanzale di una finestra che affaccia su Ground Zero. Impercettibilmente, l’attenzione degli spettatori è sospinta al di là della loro discussione, attratta dallo scenario che si offre oltre il vetro.
Il quale mostra l’area delle Torri gemelle dopo l’11 settembre, ridotta a uno spazio di macerie. Era la prima volta che ciò accadeva, perché quel sistema dei media che aveva restituito la tragedia in tempo reale, in un’overdose di ralenti e ingrandimenti scioccanti ed emotivamente insostenibili, aveva poi deciso, Hollywood in particolare, di mettere tra parentesi l’orrore. Così all’esasperazione della registrazione in diretta della barbarie il cinema americano dopo l’attentato aveva comprensibilmente reagito ponendo la sordina al proprio immaginario. Così venne posticipata l’uscita dei film più violenti e furono eliminati da diverse pellicole tutti i riferimenti diretti o indiretti, cancellando le Torri Gemelle dal trailer di Spiderman e l’immagine di un Boeing 747 dal cartoon Disney Lilo & Stich.
Spike Lee invece decide che, un anno dopo la tragedia, è giunto il momento di fare i conti con le ferite fisiche e psicologiche inferte agli Stati Uniti. L’occasione è una sceneggiatura, La 25ª ora, che lo scrittore David Benioff aveva tratto dal suo romanzo omonimo pubblicato prima dell’11 settembre, e quindi privo di qualunque riferimento all’evento. È la storia di Monty Brogan (un misurato Edward Norton), pusher di origini irlandesi all’ultimo giorno di libertà prima del trasferimento al penitenziario in cui passerà i prossimi sette anni della sua vita. Quelle 24 ore costituiscono il suo commiato alla città e alle persone care della sua vita: il padre James (Brian Cox), vedovo ex alcolista che si sente colpevole del destino del figlio; la compagna Naturelle (Rosario Dawson), che Monty teme l’abbia tradito dando alla polizia la soffiata che l’ha fatto incastrare; gli amici d’infanzia, Frank, broker aggressivo e sicuro di sé come in un film di yuppie anni Ottanta e Jacob, l’introverso insegnante di letteratura pericolosamente attratto da una sua studentessa minorenne.
La 25ª ora resta incollato alla storia, con una singolare attenzione a tutti i personaggi e tutti i dettagli. Ma nelle mani di Spike Lee diventa qualcosa di più: perché il regista capisce che, dopo l’11 settembre, sarebbe persino ipocrita raccontare una vicenda ambientata nelle strade di New York censurando l’avvenimento che l’ha segnata fin nelle fondamenta. E allora le rende visibili quelle fondamenta, l’area ridotta a brandelli di Ground Zero, mostrata senza voyerismo (peccato per gli accenti sovraorchestrati delle musiche di Terence Blanchard), ma col tono pudico di un’elegia sommessa e commossa, in cui dal senso rispettoso del lutto emerge il legame viscerale con la città.
Allo stesso tempo la nudità delle fondamenta di Ground Zero contiene la forza di un simbolo: La 25ª ora è l’America ritratta dal punto di vista delle radici, andando al di sotto della superficie delle norme che formalmente regolano la società, mostrando la fragilità del patto di convivenza civile su cui si fonda il paese. Così Spike Lee ritrova il tema centrale del suo cinema, il razzismo, di cui l’11 settembre, col suo inevitabile carico supplementare di odio verso l’“altro”, costituisce un ulteriore detonatore e opportunità di riflessione.
Ma il lutto che aleggia su La 25ª ora, esplicitato sin dai titoli di testa che mostrano il Tribute in Light – l’installazione artistica inaugurata dopo la strage, consistente in due enormi fasci di luce azzurra proiettati verso il cielo per ricordare le Torri gemelle –, è come se mettesse la sordina al razzismo. Non ci sono conflitti espliciti, ma un odio sordo, rattrappito su se stesso, come la recitazione di imploso e doloroso autocontrollo di Edward Norton. Il quale si sfoga solo nel celebre monologo allo specchio in cui esprime tutto il suo disgusto in un catalogo rabbioso e zeppo di stereotipi che colpisce tutte le etnie che vivono a New York, aggiungendoci Osama bin Laden, la polizia, i preti, Gesu Cristo e, alla fine, anche se stesso. È una delle rappresentazioni più feroci e allo stesso tempo lucide della natura autolesionistica del razzismo, che ricerca il nemico esterno per non guardare a quello interno che lo divora.
La 25ª ora è un film sul dolore, sul senso di colpa, anche sulla speranza – contenuta nella parabola della “25ª ora” recitata dal padre di Monty, sogno di un’altra vita (im)possibile –, che parte da una piccola storia di crimine newyorkese e la rilegge attraverso l’11 settembre per capire se e quanto quella enorme tragedia sia stata di insegnamento al paese. Spike Lee guarda alle fondamenta dell’identità americana, auspicando un intervento su di esse per riedificarle su basi almeno parzialmente diverse, allo stesso modo delle ruspe operosamente a lavoro sulle macerie di Ground Zero.