Emma Donoghue s’è ispirata all’impressionante caso di Elisabeth Fritzl, segregata in un bunker per 24 anni e messa incinta dal padre Josef, per il bestseller Stanza, letto, armadio, specchio, da cui il regista irlandese Lenny Abrahamson ha tratto Room. Libro e film – sceneggiato dalla scrittrice – raccontano la storia di Ma’ (Brie Larson, premiata con Oscar e Golden Globe), giovane donna imprigionata e seviziata dal “Vecchio Nick” (Sean Bridgers) per sette anni in una minuscola stanza, e del suo bambino di 5 anni Jack (Jacob Tremblay, bravissimo), frutto delle violenze sessuali.
Room però non esplora lo spazio della segregazione sottolineandone angustie e mancanze bensì come un luogo in cui, paradossalmente, la vita si esprime nella sua interezza. Perciò la vicenda è narrata dal punto di vista di Jack che, non conoscendo altre dimensioni, percepisce la “stanza” come l’intero universo esistente. Un universo animato, in cui il bambino si relaziona a ogni oggetto come se possedesse un’identità; e anche regolato da un’elementare metafisica binaria, da un lato la “realtà” – cose ed esseri viventi, carceriere compreso –, dall’altro il “mondo magico” immaginario della televisione.
Agli occhi di Jack lo spazio non soffre di limitazioni, per questo Room occulta visivamente la sensazione di claustrofobia aumentando la lunghezza focale nelle riprese e mantenendo lo sfondo fuori fuoco, così che i due personaggi principali, inquadrati da vicino, sembrano stagliarsi su uno sfondo non oppressivo. Così una vicenda sulla carta condannata alla monotonia asfissiante della reclusione si trasforma in una storia ricca di accenti. Che diventa di volta in volta favola, quando la voce over di Jack racconta con infantile gusto fantastico il suo mondo in una stanza; dramma psicologico su una convivenza amorevole ma forzata; escape movie su un riuscito tentativo di fuga.
Alla fine i diversi registri narrativi di Room si coagulano intorno all’idea secondo cui ogni vita corre il rischio di assomigliare a quella di Ma’ e Jack. Perché i confini costrittivi non sono solo quelli materiali dell’isolamento e le gabbie possono essere di tante nature diverse. Infatti la prova più difficile in Room arriva dopo la fuga, quando Ma’ ritorna a essere Joy, giovane figlia d’una coppia divorziata (Joan Allen e William H. Macy), catapultata di nuovo nella “realtà” insieme a Jack, che l’assapora per la prima volta. Ed è allora che lo stare al mondo si rivela una sfida esistenziale che necessita il ricorso a tutte le risorse emotive, affettive, sociali possibili.
Nel precedente, bizzarro Frank, Abrahamson ha raccontato un’altra forma di prigionia, quella che si autoprocura un cantante il quale, per reggere il peso di se stesso e del mondo, si nasconde dietro un’enorme maschera di cartapesta. Room è una intelligente e sensibile variazione sul tema: racconta i limiti, fisici e mentali, all’interno dei quali ci muoviamo; e anche le strategie narrative – come quella fiabesca di Jack – che attiviamo per rendere tollerabile la realtà, a costo talvolta di mentire a noi stessi.