Nel marzo di quest’anno in oltre quattrocento cinema americani è tornato in occasione del trentennale Breakfast club (1985), commedia generazionale di culto degli anni Ottanta, molto amata negli Stati Uniti e in Italia. Una storia di cinque adolescenti diversi tra loro, costretti per punizione a passare un sabato pomeriggio a scuola, durante il quale le differenze sfumano ed emergono rabbie e paure comuni. Nonostante ciò, il suo regista è ormai quasi dimenticato – come gli attori, Molly Ringwald, Anthony Michael Hall, Judd Nelson, allora dei quasi divi –, ma John Hughes è stato un re mida del cinema di quegli anni, una carriera culminata col blockbuster Mamma ho perso l’aereo (1990), di cui curò sceneggiatura e produzione. Dopo il quale diradò drasticamente la sua attività, sprecata in film mediocri, fino alla prematura scomparsa nel 2009.
Pubblicitario passato alla scrittura umoristica, per la rivista National Lampoon, Hughes era uno scrittore compulsivo, proverbiale per la sua velocità. Stava lavorando a Breakfast Club quando scrisse in un weekend la sceneggiatura di Sixteen candles (Un compleanno da ricordare, 1984), che così divenne la sua prima regia. Due film che insieme al successivo Una pazza giornata di vacanza (1986) compongono una sorta di trilogia sull’adolescenza, con notazioni acute sul narcisismo e le insoddisfazioni dei giovani americani, filtrate attraverso uno sguardo affettuoso e partecipe.
Una ragazzina che compie sedici anni mentre la famiglia è concentrata sul matrimonio della sorella maggiore; il quintetto di Breakfast club , “un cervello, un atleta, una pazza, una principessa e un criminale”, come sintetizzano i ragazzi nel tema che sono obbligati a scrivere, rilanciando sul preside della scuola gli stessi stereotipi identitari di cui sono vittime; la giornata di filone del ragazzo più carismatico della scuola, la sua fidanzata e l’amico insicuro e problematico. Queste storie fotografano bene un modello di adolescenza divenuto maggioritario a partire dagli anni Ottanta: giovani ossessivamente centrati su se stessi, spavaldi nelle loro certezze ma al fondo ostaggi di una fragilità di fronte alla quale restano soli, senza le comunità di riferimento e i progetti che facevano da collante alla generazione dei loro padri (l’idealismo politico degli anni Sessanta) e con l’unica contraddittoria àncora di salvataggio della famiglia.
I film di Hughes riescono a radiografare una stagione della vita, l’adolescenza, in cui tutto è vissuto con assoluta serietà, svelandone con tono divertito e sincero interrogativi e smarrimenti. Un mondo rielaborato dalla sensibilità dei ragazzi, in cui gli adulti – dalle figure affettive genitoriali a quelle assertive e normative dei presidi di scuola – non sono soggetti autonomi, ma una proiezione del loro universo emotivo, alle cui richieste rispondono talvolta con empatia talvolta mostrando una frustrante estraneità.
L’influenza che Hughes ha esercitato sulla cultura e l’immaginario americani è ampia, anche perché incardinata su un progetto più ambizioso di quanto possa sembrare a prima vista. Matthew Broderick, uno dei suoi attori preferiti, ha detto che il regista “amava i vasti affreschi, non gli interessava raccontare delle tranches de vie”. Per questo delinea un luogo fittizio ideale in cui ambientare gran parte delle sue storie, Shermer, vista come una sintesi dell’intera provincia americana, la città qualunque abitata da qualunque adolescente. Una città simbolo, come la Springfield dei Simpson, un cartoon che dal cinema di Hughes trae atmosfere e personaggi (le schermaglie tra Bart Simpson e il direttore Skinner ricordano molto quelle tra Ferris Bueller e il preside di Una pazza giornata di vacanza). E la prospettiva eternamente adolescenziale attraverso cui i personaggi affrontano la vita ha lasciato un segno, ben mimetizzato, persino sul cinema di Wes Anderson.
Il cinema di John Hughes merita di essere rivisto, tenendo conto delle sue qualità e dei suoi limiti (il tono a volte troppo esplicito dei dialoghi; la convenzionalità di alcuni snodi narrativi). Si può cominciare stasera con l’esile Sixteen candles, dirigendosi poi sul resto della sua trilogia e sul bel Un biglietto in due (1987), tragicomica storia adulta con Steve Martin e John Candy. Film che faranno scattare un effetto nostalgia sui quarantenni che li hanno visti quando uscirono, ma forse in grado di parlare anche alle nuove generazioni, per quella capacità caratteristica di Hughes di identificarsi completamente nei tormenti dell’adolescenza, età ideale in cui tutto sembra possibile e ogni cosa viene vissuta con l’intensità di una scoperta continua.
https://youtu.be/wF16F3dN140